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2023/24 - Catechesi Adulti

IL VANGELO SECONDO MARCO

Con l’inizio di un nuovo anno liturgico, i nostri incontri di catechesi saranno centrati sulla lectio del Vangelo domenicale dell’anno B, il Vangelo secondo Marco.

Quello di Marco è chiamato secondo Vangelo ma in realtà è il più antico e sta alla base di tutta al tradizione sinottica, utilizzato largamente da Matteo e Luca nella composizione dei propri Vangeli. Prima di Marco esisteva solo la tradizione orale nella predicazione, nella liturgia e nella catechesi.

Giovanni Marco, l’autore, era un convertito dal giudaismo, cugino di Barnaba. Gli Atti degli Apostoli lo mostrano in stretta relazione con Barnaba, con Pietro, di cui fu interprete, e con Paolo.

Pietro appare continuamente nel racconto di Marco in tutti i suoi aspetti positivi e negativi. In particolare egli è il primo dei chiamati (1,16-20); accoglie e ospita Gesù nella sua casa a Cafarnao (1,29-31); confessa la fede in Gesù Messia (8,29); fa sempre parte del gruppetto scelto da Gesù come testimone di eventi speciali: la resurrezione della figlia del capo della sinagoga, (5,35-43),la Trasfigurazione (9,2-10) e l’agonia al Getsemani (12,3-16); è il discepolo che non comprende la Passione di Gesù, rivelando il ruolo di satana (8,32; 14,29-31), ma il Maestro gli ricorda il suo vero ruolo di discepolo e il compito permanente di camminare dietro a Lui; è colui che rinnega Gesù durante la Passione e poi piange amaramente (14,66-72); è colui che riceve l’annuncio della Risurrezione di Gesù ed è inviato in Galilea.

Secondo la tradizione, Marco scrisse il suo Vangelo dopo la morte di Pietro tra il 65 e il 70 d. C. per i cristiani non palestinesi e di origine pagana. Lo prova il fatto che vengano spiegate alcune usanze ebraiche: le abluzioni (7,3-4), il primo giorno degli azzimi (14,12), la Parasceve, vigilia del sabato (15,42)… sottolinea l’importanza di annunciare il messaggio evangelico a tutte le genti. Per esse Marco traduce parole aramaiche: Talitha kum (fanciulla alzati), effathà (apriti), Bartimeo (figlio di Timeo)…

Lo stile narrativo di Marco è semplice ed essenziale, Proprio per questo molto efficace. Centrato sull’identità di Gesù, è un cammino verso la rivelazione finale del Figlio di Dio, il Crocifisso, il Cristo, Figlio prediletto in cui il Padre si compiace. Dopo il prologo, il testo si divide in due parti; nella prima parte Gesù è rivelato progressivamente come il Messia atteso la cui vera identità viene fraintesa dai farisei, dai suoi stessi parenti e concittadini e dagli stessi discepoli; di Lui ci si chiede costantemente: “Chi è costui?"

Nella seconda parte, dopo la confessione di Pietro, Gesù è svelato nel mistero del sofferente Figlio dell’uomo e Figlio di Dio. E’ la risposta di Dio a questo interrogativo perché la domanda sull’identità di Gesù diventa tensione e ascolto per accogliere la rivelazione del Figlio di Dio in Gesù Crocifisso.
Il passaggio fra le due parti è segnato dalla domanda di Gesù: “E voi chi dite che io sia?”

Il racconto di Marco inizia e termina in Galilea dove Gesù precede i discepoli, è una storia epifanica che rivela e manifesta progressivamente l’identità e la missione di Gesù fino alla sua rivelazione completa sotto la Croce dove Egli è proclamato Figlio di Dio, titolo che gli era stato attribuito dal Padre nel Battesimo e che ora è riconosciuto e proclamato tale da un uomo.

Il titolo “Figlio di Dio” attraversa come un filo rosso l’intero Vangelo di Marco a partire dal primo verso (1,1) fino alla fine (15,39), la Croce diventa Epifania di Gesù, Figlio di Dio.

La Vite e i Tralci

V DOMENICA DI PASQUA a cura di Elena Stranieri
Giovanni 15,1-8

CONTESTO: dopo l’ultima cena; Gesù ha appena annunciato che deve morire e i discepoli sono turbati. Gesù dialoga con loro, cerca di manifestare il suo amore, la sua vicinanza ripetendo spesso “non sia turbato il vostro cuore”, “non temete”. E’ un segno forte della relazione tra il maestro e i suoi discepoli.

IO SONO: fa esplicito riferimento al nome di Dio (Es 3-14: “mi diranno qual è il suo nome? E io cosa risponderò loro? E Dio disse a Mosè: IO SONO colui che sono”). E’ il nome con cui Dio si è rivelato. Adesso in Cristo, realizzazione della promessa, IO SONO acquista concretezza diversa:
- Il pane della vita (6,35) nella sinagoga -La luce del mondo (8,12) dopo l’incontro con l’adultera -Il bel pastore (10,11) domenica scorsa -La risurrezione e la vita (11,25) resurrezione di Lazzaro -La via, la verità e la vita (14,6) agli apostoli che non conoscono la via per seguirlo. -Qui la vera vite.

LINGUAGGIO: Gesù insegna in modo nuovo (Mc 1,22: erano stupiti del suo insegnamento; egli infatti insegnava loro come uno che ha autorità), gli esempi, le parabole fanno riferimento alla vita concreta, quella che gli ebrei conoscevano e vivevano quotidianamente: la vita dei pastori, dei contadini, delle donne di casa (la dracma perduta).

VITE: nell’A.T. più volte si fa riferimento alla vigna, simbolo del popolo di Israele: - Isaia 5,1: il mio diletto possedeva una vigna sopra un fertile colle. L’aveva dissodata e sgombrata dai sassi e vi aveva piantato uve pregiate…..
- Salmo 80: Hai sradicato una vite dall’Egitto, le hai preparato il terreno, hai affondato le sue radici ed essa ha riempito la terra
- Geremia 2,21: ti avevo piantata come vigna pregiata, tutta di vitigni genuini. Il Padre ha generato, fatto crescere e custodito il suo popolo, perché portasse frutti buoni.
Ma Gesù dice io sono LA VITE: la vigna è il popolo di Israele, infedele, peccatore, la vite è Cristo, unico che può portare vero frutto (il vino insieme al pane e all’olio è uno degli elementi più usati negli insegnamenti di Gesù: pane-eucarestia, olio-unzione, vino-eucarestia-gioia), vera vita. Il Padre è il vignaiolo, colui che fa il lavoro e aspetta con pazienza i frutti.

POTATURA: è un’azione consueta, normale per ogni coltivatore, che serve perché la pianta porti più frutto. Ciò che non porta frutto viene tagliato. In noi il Signore recide il male e opera un cammino di purificazione, attraverso la Parola. La potatura è dolorosa ma necessaria perché il frutto sia buono. Un frutto buono significa una vita fedele al Signore, una vita spesa nell’amore a Dio e ai fratelli. E’ necessario quindi crescere nell’unione con Gesù per poter acquisire la sua vita. Portare frutto vuol dire amare.

RIMANERE: non in senso statico stare fermi, ma lasciare che in noi scorra la “linfa” di Cristo, cioè la sua vita, l’amore che Lui ha mostrato nei riguardi dell’umanità, rimanere in stretta relazione con Lui, lasciarci plasmare dalle sue parole e dalla sua vita.

TRALCI: noi, se rimaniamo in relazione con Cristo, abbiamo in noi la sua vita, quindi portiamo lo stesso frutto. Se Cristo ha portato vita e amore a tutti, anche noi portiamo vita e amore a quanti incontriamo nel nostro cammino, se restiamo in lui, se ubbidiamo alla sua parola, se l’amore dimora in noi; obbedienza non come dipendenza (servo-padrone), ma comunione che corre tra chi si ama.

GIUDIZIO: se viene meno la linfa, il tralcio si secca e serve solo ad essere bruciato e gettato nel fuoco. Fuori da una relazione intima con Dio c’è solo morte.

CHIEDETE E VI SARA’ DATO: se amo una persona la ascolto, condivido il suo modo di pensare, la sua storia, i suoi gusti, il suo stile di vita. Lo stesso vale per Gesù: ascolto la Parola e dialogo con Lui, agisco come agirebbe lui. Attraverso la preghiera e l’ascolto della Parola realizzo il mio legame con Cristo. L’adesione a lui ci rende forti, senza timore dell’avvenire, nella certezza che la nostra preghiera (vera e purificata) è ascoltata e esaudita.

GLORIA DI DIO: in noi si manifesta la gloria del Padre solo se rimaniamo in questa relazione filiale a fraterna. “la gloria di Dio è l’uomo vivente” (salmo 144)

Il Buon Pastore

Giovanni 10,11-18 a cura di Chiara Lanza

Per comprendere bene questo brano, è opportuno tener presente il passo del profeta Ezechiele in cui Dio si lamenta dei cattivi pastori, cioè dei capi del suo popolo (Ez 34,3-4). Con l’immagine del pastore e del gregge si denunciano gli abusi commessi dai capi politici e religiosi, i quali, anziché servire i sudditi, si servono dei sudditi, li sfruttano, senza curarsi dei loro bisogni. Alla fine della sua requisitoria, sempre nel cap. 34 di Ezechiele, Dio fa una promessa. Annuncia un tempo in cui Lui stesso si farà pastore per il suo popolo (Ez 34,11-16).
Gesù, nel Vangelo, non fa che riprendere e applicare a sé questo discorso. Dio ha mantenuto la sua promessa: è venuto Lui stesso sulla terra per essere quel pastore ideale per gli uomini.

Analizziamo il brano del Vangelo.

IO SONO – Questa particolare rivelazione che Gesù fa di se stesso («Io Sono»), ci riporta alla rivelazione del nome di Dio, come appare in Es 3,14-16: «Dio disse a Mosè: “Io sono colui che sono”. E aggiunse: Così dirai agli Israeliti: “Io sono mi ha mandato a voi”… Questo è il mio nome per sempre; questo è il titolo con cui sarò ricordato di generazione in generazione». Attribuendo alla Sua persona questo titolo, Gesù esprime la consapevolezza di essere uguale al Padre (Gv 10,30: «Io e il Padre siamo una cosa sola») e di essere Lui stesso Dio (Gv 14,9: «Chi ha visto me ha visto il Padre»).

IL BUON PASTORE – È una delle definizioni più belle riguardanti Gesù. Gesù è Dio che si rivela come buon pastore. Io sono il pastore bello, dice letteralmente il testo evangelico originale. E noi capiamo che la sua bellezza non sta tanto nel suo aspetto esteriore, ma nel suo coraggio e nella sua generosità, nel suo rapporto bello con il gregge, espresso con un verbo alto che il Vangelo rilancia per ben cinque volte per sottolineare l’importanza del gesto: “Dare la vita” (vv. 11.15.17.18).

MERCENARIO – È significativo il confronto col mercenario, chi fa questo mestiere solo perché pagato, che guarda alla ricompensa per il lavoro, ma che in verità non ama le pecore: queste non gli appartengono e non contano nulla per lui. Lo dimostra il fatto che, quando arriva il lupo, egli abbandona le pecore e fugge via: vuole salvare se stesso, non le pecore a lui affidate. Al pastore invece importano. La logica del “buon pastore” è la logica dell’amore, del “mi importa”.
Gesù è il pastore che, per salvare me, perde se stesso. Al Signore, l'uomo interessa, per Lui è importante. E quando ci sono i problemi, le ferite, le difficoltà, Lui non fugge, ma ci è vicino e cammina accanto a noi.

In questo brano il Signore indica tre caratteristiche che riguardano il vero pastore: generosità coraggiosa, egli dà la propria vita per le pecore; conoscenza profonda, le conosce ed esse lo conoscono; cura per l’unità, sta a servizio dell’unità.

1^. Il buon pastore dà la propria vita per le pecore – A differenza del mercenario, Cristo pastore è una guida premurosa che partecipa alla vita del suo gregge, non ricerca altro interesse, non ha altra ambizione che quella di guidare, nutrire e proteggere le sue pecore. Dà la propria vita per le pecore e queste parole si sono realizzate pienamente quando Cristo, obbedendo liberamente alla volontà del Padre, si è immolato sulla Croce. Allora diventa completamente chiaro che cosa significa che Egli è “il buon pastore”: dà la vita, ha offerto la Sua vita in sacrificio per tutti noi. E per questo è il buon pastore! Cristo è il pastore vero, che realizza il modello più alto di amore per il gregge. Ecco la bellezza. La bellezza della vita di Gesù è che dà tutto e muore per amore. Non c’è altra bellezza se non l’amore.

2^. Conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, così come il Padre conosce me e io conosco il Padre (vv. 14-15) – Naturalmente non si tratta di una conoscenza intellettuale, ma di una relazione personale profonda, una conoscenza del cuore. Si conosce solo se si ama. Noi conosciamo soltanto le persone che amiamo. La relazione d’amore fra Gesù e le pecore rinvia allo stesso tipo di relazione che caratterizza il legame fra il Padre e il Figlio. Gesù in questo modo dice: “Io conosco voi come il Padre conosce me, Io amo voi come il Padre ama me”. Gesù ci porta dentro alla vita di amore infinito che c’è tra Lui e il Padre.
Una delle più grandi sofferenze è sentirsi anonimi, mentre una delle gioie più profonde è sentirsi conosciuti e amati. Quindi è bello e consolante sapere che Gesù ci conosce ad uno ad uno. Il nostro nome sta scritto nel Suo cuore. Lui ci conosce come nessun altro. Non ci ama in maniera indistinta, sa tutto di noi: le gioie e le fatiche, i sentimenti più nascosti, i pregi e i difetti, ed è sempre pronto a prendersi cura di noi. Gesù è l’unico che ci conosce veramente e per questo può amare di noi anche quello che gli altri o noi stessi non riusciamo ad amare.

3^. Ho altre pecore che non provengono da questo recinto; anche quelle io devo guidare; ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge e un solo pastore (vv.16-17) – Emerge l’orizzonte universale dell’agire di Gesù. L’amore di Cristo non è selettivo, abbraccia tutti. Gesù è pastore di tutti e vuole che tutti possano ricevere l’amore del Padre e incontrare Dio. E la Chiesa è chiamata a portare avanti questa missione di Cristo. Oltre a quanti frequentano le nostre comunità, ci sono tante persone che lo fanno solo in casi particolari o mai. Ma non per questo non sono figli di Dio: il Padre affida tutti a Gesù Buon Pastore, che per tutti ha dato la vita.

L’unità è possibile dove qualcuno dà la vita. È così nelle nostre famiglie, nelle nostre parrocchie... Ai vv. 17-18 leggiamo: Per questo il Padre mi ama: perché io do la mia vita, per poi riprenderla di nuovo. Nessuno me la toglie: io la do da me stesso. Ho il potere di darla e il potere di riprenderla di nuovo – Perché il Padre ama Gesù? Perché Gesù realizza la Sua volontà, quella volontà che è amore fino al dono della vita. In Gesù c’è questo amore “fino all’estremo” (Gv 13,1): “…avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino alla fine”), fino al dono della vita appunto e c’è il “potere di riprenderla di nuovo”. È chiaro che si sta parlando della morte e risurrezione di Gesù.

Ricordiamo l’episodio della lavanda dei piedi: Gesù, in quell’occasione, si toglie le vesti (le depone) e poi se le rimette (le riprende). Sono gli stessi verbi che Gesù utilizza per il Buon Pastore: dà la vita per le pecore e nessuno gliela può togliere, perché è Lui che depone la vita e poi la riprende. È evidente il senso di un’assoluta padronanza da parte di Gesù rispetto alla propria morte.

Nessuno gli toglie la vita, è Lui che la dona. Il Suo è un dono fatto nella libertà e per amore. Ha dato la Sua vita perché, quando si ama, si è capaci di dare per gli amati tutto, tutto ciò che si ha e tutto ciò che si è. L’amore non è costrizione, l’amore si dona gratuitamente nella libertà. Questo è il comando che ho ricevuto dal Padre mio (v.18) – Sembra quasi esserci contrasto tra la padronanza di Gesù in relazione al dono della Sua vita e il comando del Padre. In verità questo contrasto è solo apparente e intende mettere in risalto l’unità di volontà tra Padre e Figlio. Il comando del Padre è la volontà libera del Figlio (Gv 10,30: “Io e il Padre siamo una cosa sola”).

Anche noi siamo chiamati ad assumere il ruolo di “pastore buono”, cioè forte, bello, vero, di un minimo gregge che ci è consegnato: la famiglia, gli amici, coloro che chiedono il nostro aiuto.
Nel vivere quotidiano, “dare la vita” significa uscire dall’egoismo per fare dell’esistenza un dono, spendersi per chi ha bisogno, essere “tutto” per l’altro. La felicità di questa nostra vita ha a che fare con il dono. E con il diventare pastori buoni di un piccolo, minimo gregge affidato alle nostre cure.

Cristo è Risorto veramente, è Vivo!

III domenica di Pasqua anno B Luca24,35-48

Il Vangelo della III dom. di Pasqua si colloca ancora nel giorno di Pasqua. Le testimonianze si sono susseguite incalzanti: le donne per prime hanno dato l'incredibile annuncio; Pietro e Giovanni sono corsi a verificare; i due discepoli di Emmaus, tornati frettolosamente a Gerusalemme, raccontano la stupenda esperienza appena vissuta.

Due notazioni preliminari:
1- I discepoli di Emmaus avevano riconosciuto Gesù dallo spezzare il pane:il Risorto si fa presente nei gesti liturgici della Chiesa, nell’Eucaristia.
2-Gesù risorto si fa incontro ai suoi con il dono della riconciliazione: “Pace a voi”. La Pace è il dono del Signore risorto. Solo da Lui viene la Pace che non è solo assenza di guerra ma Shalom: la pienezza della vita, della bontà, del benessere.

Metto in evidenza 3 elementi:

1• Gesù è vivo.. È proprio lui. Non è suggestione, né ricordo di un insegnamento, né solo anima! Ai discepoli stupiti e spaventati che credevano di vedere un fantasma, Gesù pazientemente mostra che non si tratta di fantasia, allucinazione, Gesù è veramente risorto. E’ VIVO! Ciò significa che ha vinto la morte e il peccato che ne è la causa.
La risurrezione di Gesù è un evento concreto. E’ un fatto storico ma non si relega solo nella storia non riguarda solo il passato, riguarda anche la nostra realtà ultima il futuro, perché se Gesù è vivo, allora c’è anche per noi la possibilità di vita. Riguarda però anche il presente, perché non dobbiamo aspettare di morire per sperimentare che Gesù è VIVO!. Questo fatto ci cambia la vita adesso e per sempre! Perché se Gesù è vivo io ne posso fare l'esperienza posso essere in relazione con una persona viva, oggettiva, concreta!

Non si tratta semplicemente di "sapere che Gesù è risorto"... bensì di "sperimentare che Gesù è vivo". Se Gesù è risorto e io solamente con l’intelletto credo a questo fatto, come se fosse uno dei tanti fatti accaduti nella storia, io non provo nulla, il fatto non coinvolge la mia sfera vitale e affettiva, non mi emoziona, non mi cambia niente. In cosa è diversa la mia vita da quella di chi non crede? Ma se mi metto in relazione con Lui, se faccio esperienza della sua presenza, allora si che cambia la mia vita.

2• La fatica di credere.
I discepoli fanno una grande fatica a credere, nonostante le continue apparizioni.
Durante l'esistenza terrena di Gesù, gli apostoli erano stati testimoni di morti restituiti da Lui alla vita. Fatti straordinari che tuttavia reinserivano pienamente il beneficato nel contesto umano, restituendolo alla vita di prima. Ora invece si trovano di fronte a qualcosa di totalmente inedito. Colui che è apparso in mezzo a loro è lo stesso Gesù con cui hanno vissuto per tre anni, eppure è diverso. È entrato in una dimensione nuova, di cui l'uomo non ha esperienza.

Erano stupiti e spaventati credevano di vedere un fantasma. Ma egli disse: «Perché siete turbati, e perché sorgono dubbi nel vostro cuore? Da ultimo mangia davanti a loro una porzione di pesce arrostito. Solo a questo punto il turbamento si trasforma in una grande gioia “Ma poiché per la grande gioia non credevano…” (Lc 24, 41), ancora ed erano pieni di stupore, la gioia impediva loro di credere. Paolo dice ai Galati, “la gioia è il frutto dello Spirito Santo” (Gal 5,22). Questa gioia che ci riempie il cuore è il frutto dello Spirito Santo. Allora chiediamola e teniamocela stretta questa gioia dono dello Spirito e riversiamola sul mondo!

I discepoli hanno già assistito ad altre apparizioni... L'ultima è appena avvenuta ed è menzionata all'inizio del Vangelo: «Di ritorno da Emmaus, i due discepoli riferirono ciò che era accaduto lungo la via e come avevano riconosciuto Gesù nello spezzare il pane». Eppure fanno tanta fatica a credere che Gesù è veramente vivo: credevano di vedere un fantasma... ancora non credevano ed erano stupefatti».
Come i discepoli, anche noi facciamo fatica a credere, quanti dubbi riempiono la nostra mente e il nostro cuore suscitando tanti interrogativi di fede!

La fede non è una sicurezza acquisita per sempre! Non c'è solo la fatica del vivere. C'è anche la fatica del credere. Questa fatica fa parte della fede stessa. Le cose più belle, più grandi, più vere della vita costano "fatica". Pensiamo alla fatica e all’impegno necessari in una coppia, la fatica di seguire con fedeltà la propria chiamata, la fatica di crescere ed educare i figli, la fatica di compiere bene il proprio lavoro… Così anche i dubbi fanno parte di questa fatica, non sono nemici della fede, piuttosto il contrario, quando c'è la volontà di affrontarli seriamente aiutano a rendere la fede più profonda e più salda.

. La parte finale dell’incontro è ricco di contenuti, (44-48), rimanda da un lato agli insegnamenti che Gesù aveva impartito quando era con loro e dall’altro al compimento in Lui di tutte le scritture.

Vengono enunciati gli articoli del Kerigma che costituiscono il nucleo della fede:
1-la Passione, Morte e Risurrezione di Gesù, annunciate nelle Scritture.
2-La predicazione della conversione in vista del perdono dei peccati.
3- La funzione di testimoni affidata agli apostoli con l’incarico agli 11 (alla Chiesa) di portare il messaggio a tutte le genti e battezzarle nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo (per tale compito dovranno attendere lo Spirito Santo).

E’ necessario che Gesù stesso "apra la loro mente all'intelligenza delle Scritture" perché lentamente si faccia la luce in loro, e comprendano il mistero di quella tomba vuota. Essa si rivela allora come grembo fecondo da cui sgorga la vita. Grembo in cui ogni uomo, morto per il peccato, è stato rigenerato a una vita nuova: quella dei figli di Dio. Nell'umanità di Gesù è la mia umanità, sono io che sono stato sepolto e sono risorto. Il fonte battesimale ha visibilizzato e attualizzato per me questo incredibile passaggio. Ora io sono una creatura nuova. La mia vita non può più snodarsi secondo logiche esclusivamente umane. La realtà divina è sbocciata in me e io divento testimonianza del Risorto.

3• Credere significa testimoniare.
I credenti nella risurrezione di Cristo sono testimoni!
«Nel nome di Cristo saranno predicati a tutte le genti la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme. Di questo voi siete testimoni».
La conversione e il perdono dei peccati annunciate a tutte le genti è il frutto della Resurrezione, è comprensibile solo alla sua luce.

“Oggi si è smarrito il senso del peccato” ( Papa Pio XII). La Parola di Dio, i suoi comandamenti, la vita di Gesù fanno maturare nei credenti il senso del peccato e la certezza del perdono. In Gesù si è rivelata la misericordia di Dio, però attenzione: Gesù è misericordioso, ma non accomodante! La misericordia esige Conversione: “Va’ e non peccare più” (Gio. 8,11).

Noi quale idea abbiamo del peccato? C’è molta confusione oggi, come un torpore, uno stordimento, tutto sembra lecito… è una trasgressione? una struttura sociale che genera ingiustizia’? E’ senso di colpa? Se non si ha una concezione chiara del peccato e della sua drammaticità, non si può avere la concezione di liberazione… Per il cristiano, il peccato è rifiutare di vivere come ha vissuto Gesù in obbedienza al Padre e nell’amore che si fa servizio. Peccato è scegliere di vivere come se Lui non c’entrasse con noi e seguire soltanto i nostri pensieri e desideri.

Noi di cosa siamo testimoni? Cosa testimoniamo con la nostra vita? Siamo cristiani "credenti e praticanti". Ma siamo anche testimoni? Cioè cristiani "credibili" che mettono "in pratica" il vangelo?
«Conversione e perdono dei peccati: di questo voi siete testimoni». Se crediamo nella risurrezione di Gesù –allora bisogna che da questo incontro con Gesù vivo io cominci a praticare una seria conversione dei miei atteggiamenti che non convergono verso Dio. Bisogna che io cominci a perdonare i peccati…(…come anche noi…) «cominciando da Gerusalemme», cioè da quelli di casa mia. Nella mia famiglia e con i miei parenti. Nella mia parrocchia e con i miei amici. La forza me la dà Gesù in persona, vivo in mezzo a noi nell’ Eucaristia: «Sono proprio io», presente in carne e ossa e sangue.

Chi sono i testimoni? Quelli che raccontano ciò che hanno visto e sperimentato: i testimoni devono essere credibili, altrimenti vengono ricusati. I santi sono testimoni credibili… e noi?

La Parola di Dio mi interpella:
- La Resurrezione di Cristo mi riguarda o non incide nella mia vita personale?
- Come posso fare esperienza di Gesù Risorto e Vivo? Dove? Per mezzo di che o di chi? (Lasciamo che questa domanda scavi nel nostro cuore)
- La Fede non è una sicurezza acquisita per sempre, sento anch’io la fatica di credere? Quali sono le difficoltà, i dubbi che devo affrontare?
- Cosa testimonio con la mia vita? Sono credibile come cristiana che mette in pratica il Vangelo?

Per approfondire CdA: “La Verità Vi Farà Liberi”
nn196-199:La festa dei peccatori convertiti
Nn 272-282: Cristo Risorto fondamento della risurrezione universale.

RIFLESSIONE sulla PASSIONE di Marco

A cura di Elena Stranieri

La lettura di tutto il testo rende impossibile un confronto. Ho scelto di affrontare alcuni aspetti soltanto, come riflessione, per aiutarci ad entrare sempre meglio in un percorso pasquale, a livello personale e interiore. Considerando alcuni personaggi che incontriamo nel testo, possiamo individuare e meditare su alcuni atteggiamenti, azioni e scelte che ci possono aiutare a fare nostra sempre di più la Parola.

UNA DONNA (14,3)
Siamo a Betania, a cena da lebbroso. Questa donna (che potrebbe essere Maria, sorella di Marta e Lazzaro, oppure l’adultera, quella che Gesù ha salvato dalla lapidazione) entra, non parla ma agisce: non versa un po’ di profumo, ma spacca il contenitore di alabastro (marmo) e versa tutto il profumo sul capo di Gesù. E' un’offerta totale, piena, la gratuità del dono fatto, senza calcolo e senza misura. Questa donna è segno di un amore che non calcola, che si dona senza chiedere nulla in cambio. Questo amore così smisurato crea malumore (spreco, inopportunità, incomprensione): Gesù accoglie il dono e la gratifica. Questa donna ci mostra come dobbiamo amare: incondizionatamente, senza misura, calcolo o contraccambio.

PIETRO (14,26-31) (14,66-72)
Col suo carattere focoso ed immediato, nega di rinnegare Gesù. Per due volte dice “non ti rinnegherò”. Gesù gli preannuncia quello che accadrà, ma ancora non è convinto. Gli altri: compaiono poco e spariscono presto, impauriti e timorosi di ritorsioni e morte. Pietro è l’unico che reagisce: in Giovanni taglia l’orecchio del soldato. Pietro non scappa ma mantiene le distanze: sta nel cortile e per ben tre volte nega di essere discepolo di “quell’uomo”, non lo chiama, non lo conosce. Ricorda le parole di Gesù e piange (Luca e Matteo scrivono “pianse amaramente”). Questo pianto è importante perché ci dice quanto lui abbia compreso, un po’ tardi, l’errore, il peccato compiuto, e se ne pente profondamente. E’ il segno della comprensione del peccato commesso e dell’inizio di un nuovo percorso, della conversione.
A volte anche noi abbiamo la chiara comprensione di aver sbagliato, di aver commesso il male, anche se solo noi lo sappiamo. Chiediamo al Signore Gesù il dono del pentimento e della riconciliazione, per ricominciare.

PILATO (15,1-15)
Lo interroga, si meraviglia perché non si difende, sa che gli è stato consegnato per invidia, cerca in cari modi di liberarlo, discute coi sommi sacerdoti che hanno sobillato il popolo, lo ritiene innocente, chiede “che male vi ha fatto?”. La sua comprensione si ferma qui: è troppo invischiato nel potere politico, ha troppo bisogno che il popolo sia con lui, non può scontentarlo. Non ha il coraggio di scegliere la verità (in Giovanni ricordiamo il famoso dialogo sulla verità). Per convenienza accetta e fa l’ingiustizia. In Matteo “si lavò le mani”. Pilato ci aiuta a guardare bene le motivazioni delle nostre scelte: sono guidate da verità e giustizia, oppure da opportunità e comodità?

SIMONE DI CIRENE (15,21)
E’ semplicemente uno che passa, senza ruoli specifici e importanza. Prende su di sé la croce senza protestare, viene obbligato ma non tenta di sottrarsi. Non parla, ma si sostituisce a Gesù nel portare la croce, fa un servizio a chi era in difficoltà. Il cireneo nel linguaggio comune ancora è colui che si sostituisce nella fatica. Senza parole ci insegna che la carità è gratuita. Riflettiamo sul nostro quotidiano: quante volte potremmo aiutare, potremmo essere presenti, ascoltare, fare qualcosa per chi è attorno a noi, ma…..qualcosa ci distoglie, ce lo impedisce. Simone ci richiama a servire senza parlare.

IL CENTURIONE (15,37-39)
E’ il capo delle guardie, probabilmente romano, fuori dalle beghe del popolo ebraico. Potremmo dire uno spettatore esterno che fa il suo dovere di soldato. Eppure osserva, vede come muore Gesù e vede tutto quanto accade intorno a lui. Luca scrive “veramente quest’uomo era giusto”. Questa esclamazione e dichiarazione di fede, fatta da un pagano, ci stimola a guardare con attenzione a Gesù, alla sua morte in croce, a come è morto in croce. Nel vangelo di Marco ha una grande importanza, in quanto costituisce la testimonianza finale, il compimento della ricerca dell’identità di Gesù, partita dalla sua nascita, nel suo battesimo, nei suoi miracoli.

La fede non deve restare una pia commozione davanti alla croce, ma diventare vita di Cristo in noi, amore gratuito dono totale della nostra vita. La fede scaturisce dall’incontro con Gesù, l’ascolto della sua Parola, il cammino di sequela. Il peccato c’è, l’importante è il sapere che Gesù mi da la possibilità di ricominciare, sempre.

Vogliamo vedere Gesù

V DOMENICA DI QUARESIMA (ANNO B) a cura di Chiara Lanza
Gv 12,20-33
Il Vangelo racconta un episodio avvenuto negli ultimi giorni della vita di Gesù. La scena si svolge a Gerusalemme, dove Egli si trova per la festa della Pasqua ebraica. Per questa celebrazione rituale sono arrivati anche alcuni Greci; si tratta di uomini animati da sentimenti religiosi, attirati dalla fede del popolo ebraico che, avendo sentito parlare di questo grande profeta, si avvicinano a Filippo, uno dei dodici apostoli, e gli dicono: “Vogliamo vedere Gesù” (v. 21).

Filippo ne parla ad Andrea e poi insieme lo riferiscono al Maestro. “Vogliamo vedere Gesù” - Nella richiesta di quei Greci possiamo scorgere il desiderio di tanti uomini e donne, di ogni luogo e di ogni tempo. Giovanni pone in risalto questa frase, centrata sul verbo vedere, che nel vocabolario dell’evangelista significa andare oltre le apparenze per cogliere il mistero di una persona. Il verbo che utilizza Giovanni, “vedere”, è arrivare fino al cuore, arrivare con la vista, con la comprensione, fino all’intimo della persona, dentro la persona.

La reazione di Gesù è sorprendente. Egli non risponde con un “sì” o con un “no”, ma dice: “È venuta l’ora che il Figlio dell’uomo sia glorificato” (v. 23). Queste parole, che sembrano a prima vista ignorare la domanda di quei Greci, in realtà danno la vera risposta: è l’ora della Croce!
La croce è, a volte, nel nostro modo comune di intendere, semplicemente sinonimo di fatica, di sofferenza e di fallimento. La croce è ben altro. È la manifestazione dell'amore di Dio, della sua comunione e della sua solidarietà nei nostri confronti. Gli scritti di Giovanni ne offrono una testimonianza abbondante: “Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio Unigenito” (Gv 3,16); “Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici” (Gv 15,13).

Papa Francesco ha detto: “Chi vuole conoscere Gesù deve guardare dentro alla croce, dove si rivela la sua gloria”. Che cos’è la gloria di Dio? La gloria di Dio è la rivelazione della sua grazia, del suo amore gratuito. Il culmine della gloria è la croce. Nella croce noi vediamo chi è davvero Dio! La croce è gloria, la gloria dell’amore, non certo la gloria della potenza.

Per spiegare il significato della Sua morte e risurrezione, Gesù si serve di un’immagine e dice: “Se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto” (v. 24).
Vuole far capire che la Sua vicenda estrema – cioè la croce, morte e risurrezione – è un atto di fecondità, una fecondità che darà frutto per molti. Come un chicco di grano, Egli è caduto in terra nella sua passione e morte, è rispuntato e ha portato frutto con la sua risurrezione. Il “molto frutto” che egli ha portato è la Chiesa, il suo Corpo Mistico.

Noi formiamo con Cristo, grazie al battesimo, come una sola spiga; san Paolo dice «un solo pane» (1Cor 10,17: “Poiché c’è un solo pane, noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo: tutti infatti partecipiamo dell’unico pane”).

Gesù afferma che “chi ama la propria vita, la perde e chi odia la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna” (v. 25). Cadere in terra e morire non è dunque solo la via per portare frutto, ma anche per “salvare la propria vita”, cioè per continuare a vivere.

Chi ama la propria vita, cioè la vive in maniera egoistica, la perde; chi odia –l’espressione è un esempio dei paradossi tipici del linguaggio orientale - chi odia la propria vita in questo mondo, cioè la offre con amore a Dio e al prossimo, conserva la sua vita per l'eternità, giunge quindi alla pienezza della realizzazione di sé, che è l'amore su questa terra e sarà il vivere nell’amore, nella gioia, nella luce e nella pace per sempre, per l’eternità.

Amare la vita non è possederla, ma farne dono. L’offerta della vita stessa è la manifestazione della gloria di Dio. Gesù dice: “Se uno mi vuole servire, mi segua, e dove sono io, là sarà anche il mio servitore. Se uno serve me, il Padre lo onorerà” (v. 26).

Nella Bibbia diversi sono i servi (ad es. Abramo, Mosè…); ricordiamo in particolare Maria che dice: “Sono la serva del Signore” (Lc 1,38). Essi hanno accolto la volontà di Dio, si sono fidati, sono diventati strumenti della realizzazione del Suo piano.
Servo è colui che per amore risponde ad una chiamata, ad una missione. “Se uno mi vuole servire, mi segua” vuol dire, “se ci si lascia coinvolgere in questo progetto che è dono di se stessi”, allora si segue Gesù. Se uno, pertanto, vuole essere discepolo di Cristo deve riprodurre l’esempio di Gesù, diventando come Lui “servo”.

È Lui il modello di servo che i discepoli devono interiorizzare, il criterio per comprendere la logica del servire nella comunità e verso tutti, del dono di sé per amore. Gesù vive in modo perfetto questo stile, rivelandoci il volto inedito di Dio che si è fatto servo senza chiedere nulla in cambio, in modo incondizionato, perché Dio è amore.

Il Signore non è venuto “per farsi servire, ma per servire” (Mc 10,45), fino a farsi servo (Fil 2,7: “…ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo…”), fino a lavare i piedi dei discepoli, fino ad accettare una morte ignominiosa, assimilato ai malfattori.
Servire è un compito che richiede ascolto, preghiera, discernimento, delicatezza, generosità e molto altro. Si può riassumere tutto in un unico comandamento: “Amatevi gli uni gli altri, come io vi ho amati” (Gv 15, 12). Dunque “solo” questo ci viene chiesto: amare.

“E dove sono io sarà anche il mio servo”: dov’è Gesù? Il capitolo 25 (vv. 34 e sgg) di Matteo ci dice dov’è: a servire chi ha fame, chi ha sete, chi è nudo, chi ha bisogno di essere ospitato, chi è in prigione, insomma dove c’è qualcuno bisognoso di comprensione, di consolazione, di aiuto, bisognoso di amore.
“Se uno serve me, il Padre lo onorerà”: Dio onora l’amore. Chi ha donato la vita, allora riceve questa approvazione da parte del Padre.

L’evangelista annota poi il turbamento di Gesù al pensiero della propria morte imminente: “Adesso l’anima mia è turbata” (v. 27). Gesù però reagisce a questo turbamento mostrando una fede salda: “Che cosa dirò? Padre, salvami da quest’ora? Ma proprio per questo sono giunto a quest'ora! Padre, glorifica il tuo nome” (vv. 27-28).

Gesù si è consegnato volontariamente alla morte per corrispondere all’amore di Dio Padre, in perfetta unione con la Sua volontà, per dimostrare il Suo amore per noi. Gesù è profondamente convinto che la fecondità della sua vita passi attraverso la passione e la morte, anche se la sua è una morte ingiusta.
“Padre glorifica il tuo nome” (v. 28), cioè fai vedere chi sei attraverso di me. Ed ecco che la risposta del Padre non si fa attendere: «Venne allora una voce dal cielo: “L’ho glorificato e lo glorificherò ancora!”» (v.28).

Come nel battesimo, presso il Giordano, come sul Tabor, ancora i cieli si aprono e la voce del Padre rende testimonianza al Figlio, perché gli uomini credano in Lui, Lo ascoltino e seguano le orme del Redentore, fino alla vetta del Calvario. Gesù è la suprema glorificazione del Padre, cioè la più alta manifestazione della sua bontà e della sua sapienza.

Dunque il Padre stesso rivela l’identità del Figlio. La folla però non capisce e crede che sia stato un tuono, altri dicono che un angelo gli ha parlato. Gesù precisa: “Questa voce non è venuta per me, ma per voi” (v. 30). Per loro, ma anche per noi.

Gesù aggiunge: “Ora è il giudizio di questo mondo; ora il principe di questo mondo sarà gettato fuori” (v. 31). Parla chiaramente della lotta tra il bene e il male, tra Dio e Satana. Naturalmente in questa lotta vince Dio, vince l’amore.

E per esprimere ancora la fecondità della sua morte in croce, Gesù pronuncia questa frase: “E io, quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me” (v. 32), un’espressione dal doppio significato: “innalzato” perché crocifisso, e “innalzato” perché esaltato dal Padre nella Risurrezione, per attirare tutti a sé e riconciliare gli uomini con Dio e tra di loro. Gesù diventa dalla croce il polo di attrazione per tutti, «causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono» (Eb 5,8-9).

Lui, innalzato sulla Croce e glorificato dal Padre, svela che l’amore è l’unica forza dell’universo che neppure la morte può sconfiggere.

Cristo Crocifisso Icona dell'amore di Dio

IV Domenica di Quaresima - Laetare (Anno B) Giovanni 3,14-21

La quarta domenica di quaresima è caratterizzata dalla gioia: la gioia di essere amati da Dio, la gioia di essere stati salvati per grazia mediante la fede.

Il 3°capitolo del Vangelo secondo Giovanni si apre con la presentazione della visita notturna fatta da Nicodemo a Gesù. Nicodemo è un uomo colto, appartenente alla setta dei farisei e membro del Sinedrio. Ha sentito parlare di Gesù, sa che si definisce Figlio di Dio, vuole conoscerlo per rivolgergli delle domande, così decide di incontrarlo di notte, per non farsi vedere dagli altri farisei. Della loro lunga conversazione fa parte il nostro brano.

Gesù inizia facendo riferimento ad un episodio dell'Esodo (Nm 21,4-9). Vi erano stati diversi morti per via di serpenti nascosti sotto la sabbia. Allora Mosè, su comando di Dio, fece un serpente di bronzo che mise sopra un bastone e disse: ”Chi è morso e guarda con fede al serpente di bronzo, vivrà”. È facile comprendere che chi guarderà con l’occhio della fede Cristo, cioè chi crede in Cristo Crocifisso, avrà la vita eterna. Con una grande differenza: nell’episodio dell’Esodo, chi guardava il serpente di bronzo recuperava soltanto la salute fisica; chi, invece, crederà in Cristo avrà la vita eterna, la vita divina, quella definitiva.

“Bisogna” : è come dire che è necessario che Gesù venga crocifisso. Per Gesù, l'accettare di andare a morire in croce è necessario per la nostra salvezza. Gesù preferisce essere rifiutato dagli uomini, che non rifiutarli; preferisce lasciarsi uccidere che lasciarci morire.

“Perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna”.(v15)
La vita eterna è associata al credere nell'uomo della croce. La vita eterna comincia subito, non occorre aspettare la morte. Se la vita eterna è una vita in comunione con Colui che è l'Eterno, basta puntare alla comunione con Lui sin da oggi, e già siamo nella vita eterna. O l’abbiamo fin da ora o non l’avremo mai; non è un qualcosa che ci viene aggiunta dopo la morte, dobbiamo averla già in questa vita.

Gesù parte dall’azione che Dio compie per l’umanità: “Ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito”, Gesù è il dono dell’amore di Dio per l’umanità. “Dio ha mandato il Figlio nel mondo, perché il mondo si salvi per mezzo di lui”. Dio Padre ama, perciò manda il Figlio, così facendo, realizza la sua volontà di salvare gli uomini, perché l’unico desiderio di Dio è la nostra salvezza. L’amore di Dio non fa eccezioni, non esclude nessuno; se uno non si salva la responsabilità non è di Dio, ma soltanto sua.

La via per riuscire ad essere nella vita eterna è credere in Cristo Crocifisso. Cosa s'intende per credere? Non si tratta di una scelta intellettuale. Si tratta di credere in Colui che viene innalzato sulla croce. Innalzato fisicamente sulla croce, perché sia ben visibile a tutti come icona dell’amore di Dio Padre, ma innalzato anche nel senso che questo è il modello di uomo che Dio considera da innalzare, da stimare, lodare e imitare: colui che ama e serve è un uomo autentico perché è autenticamente umano secondo il progetto di Dio Creatore.

Gesù ha sempre amato e servito. L'ultimo servizio che ha fatto è stato quello di andare incontro a chi lo avrebbe ammazzato e di morire per lui. Credere in lui significa non solo riconoscerlo come Figlio di Dio e Salvatore del mondo ma testimoniare questa fede aderendo alla sua proposta di essere uomini che puntano ad amare e servire, che fanno propria questa impostazione di vita. L'opposto di chi punta a dominare e farsi servire.

L’amore di Dio non è mai condanna ma salvezza. Anche di fronte alla nostra infedeltà, Egli continua ad amarci. Gesù spiega che non è stato mandato a giudicare il mondo, ma per salvarlo dalla morte ( verrà il momento del giudizio ma non è questo, questo è il momento della conversione, della misericordia, della salvezza). Potremmo dire che Dio, dopo aver creato il mondo, tramite Gesù, viene a farci il dono dell'immortalità che il peccato ci ha tolto; viene ad aprirci la via alla piena comunione con Dio. Viene a salvarci dall'essere uomini disumani che prevaricano, fanno guerre, commettono nefandezze e sono pieni di paure. Davanti al dono immenso dell’amore di Dio, ognuno di noi è chiamato a decidere se aprirsi al mistero o rimanere nelle tenebre. Abbiamo davanti due possibilità, due strade: la via della vita eterna, e la via della vita senza Dio.

Per far comprendere meglio cosa significhi credere, Gesù usa la simbologia della luce e delle tenebre, indicando nella luce l’amore di Dio per l’uomo e nelle tenebre le opere malvagie dell’uomo. Cristo è la luce, che si rivela nelle parole e nelle opere. È luce perché manifestazione piena di Dio che dà la vita.
Se identifichiamo la luce con Dio, con le cose belle, pulite, oneste, le tenebre sono le cose brutte, sporche, disoneste. Dio non giudica nessuno, ma io so chi sono; me lo dicono le mie opere, quelle che faccio vedere volentieri e quelle che preferisco nascondere.

Gesù nel suo discorso ci mostra quale strada percorrere per passare dal buio alla luce, dalla morte alla vita: credere nel Figlio dell’uomo innalzato sulla croce. Ci viene mostrato il paradosso più stridente e sconcertante: la croce non è per la morte ma per la vita; non è il trionfo delle tenebre ma l’irrompere di una nuova luce, la luce che emana dall’amore di Dio per noi, un amore totalizzante, che giunge fino all’estremo nel dono del Figlio, “perché chiunque creda non vada perduto ma abbia la vita eterna” (3,16).
Il Crocefisso con la sua luce, ci guida fuori dal buio. Solo nell’amore crocifisso di Cristo l’uomo può passare dalle tenebre alla luce, perché in questo amore, anche la storia più tenebrosa e tormentata, può essere illuminata e compresa.

Davanti al male del mondo, al peccato, alla sofferenza del dolore innocente, Dio mostra Gesù Cristo crocifisso: lì il giudizio, il dono, la grazia. In Cristo Crocifisso si infrangono il desiderio di vendetta, il fallimento e l’insuccesso; egli prende le nostre situazioni di morte e tutto il nostro esistere su di sé, così che tutto ciò che ci opprime e ci condanna viene con lui crocifisso.

Purtroppo, molti rifiutano la luce di Cristo e preferiscono vivere nelle tenebre. Amano compiere il male e chi lo fa odia la luce, non intende accostarsi ad essa.
“Invece chi fa la verità viene verso la luce, perché appaia chiaramente che le sue opere sono state fatte in Dio”. (v 21)
Fa la verità chi conforma la propria condotta di vita alla Verità, cioè al Vangelo, cioè a Cristo. Chi fa il bene è già in comunione con Dio nel suo Figlio Gesù.

La Trasfigurazione di Gesù

II Domenica di Quaresima anno B a cura di Elena Stranieri
Dal Vangelo secondo Marco 9,1-9

Contesto:

Gesù ha lasciato la Galilea e si sposta verso Cesarea ed inizia a formare i suoi discepoli alla missione a cui è chiamato. Nel capitolo 8 Gesù aveva lanciato la domanda sulla sua persona e Pietro aveva fatto la sua testimonianza di fede. Immediatamente dopo Gesù ha annunciato il suo cammino verso Gerusalemme e la sua morte e ancora Pietro è intervenuto in modo forte, negando questa possibilità e Gesù lo ha sgridato chiamandolo addirittura Satana. Quindi siamo in un momento di crisi di fatica a capire cosa sta succedendo e cosa dovrà succedere.

Alcune sottolineature del testo che meditiamo:

6 giorni dopo: probabilmente il riferimento è alla festa delle tende che si celebrava per ricordare il dono della legge sul monte Sinai.

Pietro, Giacomo e Giovanni: sono i discepoli detti “del tuono”. Gesù li vuole testimoni della sua gloria chiamandoli in disparte, in un incontro intimo e solenne.

Alto monte: ci richiama il luogo della presenza di Dio, del dialogo di Dio con il suo eletto, il monte Sinai dove Dio ma dato la legge.

Vesti candide: avviene un’altra epifania, la terza (la prima a Betlemme, la seconda al giordano). Gesù appare avvolto nella luce, nella gloria.

Elia e Mosè: i profeti e la legge: conversano con Gesù. Luca aggiunge della sua morte. L’ Antico testamento, legge e profeti, ci dicono che il cammino della gloria passa per la croce.

Pietro: ancora una volta, in modo emotivo ed immediato, preso dalla paura davanti a qualcosa di incomprensibile e, dal suo punto di vista, inaccettabile, è preso dalla situazione bellissima di gloria e grandezza e propone una fuga, una chiusura in quella situazione, un congelamento di quell’istante di grazia.

Nube: nube dell’Esodo che riparava Israele, nube sull’arca dell’alleanza con la presenza di Dio, nube su Gesù al Giordano nel battesimo. E’ segno che Dio è vicino e protegge il suo Popolo e il suo eletto.

Ascoltatelo: già nel Battesimo al Giordano Dio ha testimoniato che Gesù è il figlio prediletto. Ora aggiunge ascoltatelo. Ci dice che proprio questo Gesù è il nuovo Mosè, è il Messia Servo annunciato da Isaia. Mosè e Elia ne sono testimonianza.

Gesù solo: improvvisamente è rimasto solo. Ci dice che d’ora in poi Gesù è l’unica rivelazione di Dio per noi. E’ la pienezza, la perfezione, il compimento.

Silenzio: Gesù chiede anche ai suoi discepoli il silenzio fino a che il progetto di Dio non sia compiuto, cioè non si giunga alla Risurrezione. Ancora i discepoli non capiscono e rispettano la richiesta di Gesù, rimanendo nella domanda.

Concludendo:

- Come Pietro possiamo affermare cosa grandi fare grandi atti di fede o grandi gesti, e subito dopo smentire tutto e rinnegare la nostra fede. In questa quaresima facciamo attenzione alla coerenza, cerchiamo di vivere ciò che proclamiamo.

- L’incontro col Signore ci scalda il cuore, ci rende entusiasti e creativi: facciamo si che questo sentimento diventi profondo, diventi stile di vita, per assaporare la presenza e la vicinanza del Signore in ogni aspetto della vita.

- Il dolore e la morte sono un mistero: accettiamo di non capire, di non saper cosa dire o fare davanti a situazioni di croce. Stiamo nella domanda, certi che il Signore ci accompagna anche se non capiamo.

Nel deserto Gesù ha vinto satana.

I DOMENICA DI QUARESIMA (ANNO B) Dal vangelo secondo Marco 1,12-15 A cura di Chiara Lanza

Il testo può essere diviso in due parti.

La 1^ parte (vv 12-13) riguarda la tentazione nel deserto. Marco non specifica le tentazioni, mentre nei testi di Matteo (4,1-11) e di Luca (4,1-13) viene raccontato il triplice attacco a Gesù da parte di satana, che gli prospetta una strategia trionfalistica, un falso messianismo fatto di miracoli clamorosi, come trasformare le pietre in pane, gettarsi dall’alto del tempio di Gerusalemme con la certezza di essere salvato, conquistare il dominio politico di tutte le nazioni. Il racconto di Marco è scarno, rapido, essenziale.
Ci soffermiamo su alcune espressioni.

“Lo Spirito sospinse Gesù nel deserto” – Gesù è “spinto”; dallo Spirito di Dio in questa esperienza così particolare, subito dopo il suo battesimo nel fiume Giordano, durante il quale il Padre dal cielo gli ha fatto sentire la sua voce e ha confermato il suo amore totale ed eterno. Ricordiamo le parole: “Tu sei il Figlio mio prediletto, in te mi sono compiaciuto” (Mc 1,11).

Lo Spirito “caccia” con forza Gesù nel deserto, perché si compia l’itinerario di umiliazione che ha intrapreso facendosi battezzare in mezzo ai peccatori: come tutti gli uomini anch’egli è sottomesso alla tentazione. Lo stesso Spirito che era disceso su Gesù, lo spinge quindi ad affrontare il male e a prepararsi così alla sua missione.

Deserto - Nella Scrittura il deserto è una realtà ricorrente. È nel deserto che l’amore parla al nostro cuore (Osea 2,16), ed è in luoghi appartati che Gesù si trova quando deve iniziare la sua missione o quando deve compiere scelte determinanti. Il deserto è il luogo dell’incontro con Dio, perché è uno spazio di solitudine e di silenzio, dove la preghiera è facilitata. Il deserto è anche il luogo della prova e della tentazione, dove il tentatore, approfittando della fragilità e dei bisogni umani, insinua la sua voce menzognera, alternativa a quella di Dio, una voce alternativa che fa vedere un’altra strada, una strada di inganno. Il tentatore seduce.

È importante ricordare che la prova è la situazione in cui si manifesta e matura la fedeltà dell’uomo nei confronti di Dio e in cui appare, al tempo stesso, la fedeltà di Dio verso l’uomo. “E nel deserto rimase 40 giorni” - I quaranta giorni che Gesù passò nel deserto, come numero biblico, possiedono un ricco simbolismo che significa il tempo di prova, di tentazione, di presa di coscienza e preparazione per annunciare il Regno di Dio.

Quaranta è lo stesso numero degli anni passati da Israele nel deserto, prima di entrare nella terra promessa (Es 16,35), che furono il tempo della sua tentazione, ma anche il tempo di una particolare vicinanza di Dio. Viene poi da pensare - ai quaranta giorni del diluvio (Gen 7,17); - ai quaranta giorni che Mosè trascorse sul monte Sinai (Es 24,18), prima di poter ricevere la parola di Dio, le sacre tavole dell’Alleanza; - ai quaranta giorni del cammino di Elia per raggiungere l’Oreb (1Re 19,8), il monte dove incontra Dio; - ai quaranta giorni durante i quali i cittadini di Ninive fanno penitenza per ottenere il perdono di Dio (Gn 3,4). Nel Nuovo Testamento, oltre ai quaranta giorni trascorsi da Gesù nel deserto, ricordiamo i quaranta giorni durante i quali Gesù risorto istruisce i suoi, prima di ascendere al Cielo (cfr At 1,3).

“Tentato da satana” – Durante i quaranta giorni vissuti da Gesù nel deserto inizia la lotta tra Gesù e il diavolo, che si concluderà con la Passione e la Croce. Secondo la concezione ebraica del tempo, il numero quaranta designava i quarant’anni della durata media di una generazione, quindi un numero che può significare “tutta la vita”. Del resto tutto il ministero di Cristo è una lotta contro il maligno nelle sue molteplici manifestazioni.

Nel deserto appare con viva drammaticità la realtà della kenosi, dello svuotamento di Cristo, che si è spogliato della forma di Dio. Il sottoporsi da parte di Gesù alla tentazione sottolinea la sua umanità. Ricordiamo le parole dell’apostolo Paolo nella lettera ai Filippesi riguardo a Gesù: «… pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini…» (Fil 2,6-7).

Lui, che non ha peccato e non può peccare, si sottomette alla prova e perciò può compatire le nostre infermità. «Infatti non abbiamo un sommo sacerdote che non sappia compatire le nostre infermità, essendo stato lui stesso provato in ogni cosa, a somiglianza di noi, escluso il peccato» (Eb 4,15). Gesù si lascia tentare da satana, l’avversario, che fin dal principio si è opposto al disegno salvifico di Dio in favore degli uomini.

Nel deserto Gesù ha dovuto scegliere quale volto di Dio annunciare (quello di un padrone freddo e distante o quello di un Padre pieno d’amore, vicino, compassionevole e tenero?) e quale volto d’uomo proclamare (quello di un rivale o quello di un fratello?). Gesù, insomma, nel deserto, ha dovuto scegliere che tipo di Messia sarebbe stato e ha scelto di essere un Messia diverso da quello che la gente si aspettava: non un Messia potente, forte, dominatore, ma umile, mite, servo di Dio e degli uomini, che donerà la sua vita in sacrificio, passando attraverso la via della persecuzione, della sofferenza e della morte.

“Stava con le fiere e gli angeli lo servivano” - Vinto il demone della tentazione, il deserto si trasforma. Infatti, da luogo aspro e inospitale, che evoca angoscia, solitudine, fatica e lotta, diventa luogo di pace e di armonia, in quell’abitare con le fiere, non più minacciose, ma amiche come nella splendida visione che, del regno messianico, aveva dato Isaia: ”Il lupo dimorerà insieme con l’agnello, la pantera si sdraierà accanto al capretto; il vitello e il leoncello pascoleranno insieme e un fanciullo li guiderà. La mucca e l’orsa pascoleranno insieme; si sdraieranno insieme i loro piccoli. Il leone si ciberà di paglia, come il bue. Il lattante si trastullerà sulla buca dell’aspide; il bambino metterà la mano nel covo di serpenti velenosi (Is 11,6-8).

È l’altra immagine del deserto, che, ad opera di Cristo, diviene luogo di ascolto, di incontro e di ritrovata familiarità con Dio; è un deserto fiorito, fecondo, felice, che evoca l’armonia originaria, nell’attesa di quella finale, quando vi saranno i cieli nuovi ed una nuova terra (Ap 21,1) e Dio sarà tutto in tutti (1Cor 15,28).

Marco suggerisce che, con Gesù, l’armonia delle origini è restaurata. In questo contesto, si adatta bene anche un parallelo tra Adamo e Gesù: Adamo ha ceduto e ha scelto contro Dio. Gesù ha scelto di vivere nella fedeltà ai piani di Dio e ha portato alla nascita di un nuovo mondo.

Angeli – Gli angeli, figure luminose e misteriose, sono il contrappunto di satana. “Angelo” vuol dire “inviato”. In tutto l’Antico Testamento troviamo queste figure, che nel nome di Dio aiutano e guidano gli uomini. Poi, alle soglie del Nuovo Testamento, Gabriele è inviato ad annunciare a Zaccaria e a Maria i lieti eventi che sono all’inizio della nostra salvezza; e un angelo avverte Giuseppe, orientandolo in quel momento di incertezza. Un coro di angeli reca ai pastori la buona notizia della nascita del Salvatore; come pure saranno degli angeli ad annunciare alle donne la notizia gioiosa della sua risurrezione. Alla fine dei tempi, gli angeli accompagneranno Gesù nella sua venuta nella gloria (cfr Mt 25,31).

Gli angeli servivano Gesù - Gli angeli servono Gesù, che è certamente superiore ad essi e questa sua dignità viene qui, nel Vangelo, proclamata in modo chiaro, seppure discreto. Gesù, anche quando è tentato da satana, rimane il Figlio di Dio, il Messia, il Signore. Gesù ha quindi sentito intorno a sé la presenza di forze buone, che gli trasmettevano la vicinanza di Dio.

Questa presenza di forze buone ci porta a considerare “angeli” anche tutti coloro che, in ogni deserto umano, confortano, sostengono chi è nella prova. Sono coloro che, anche solo con una parola, con uno sguardo, un piccolo atto di carità, raggiungono chi è solo e gli fanno sentire che anche in quel suo “deserto” non è abbandonato da Dio, ma continua ad essere amato.

Nella 2^ parte (vv 14-15) Gesù inaugura la sua predicazione - Abbiamo già riflettuto su questi versetti commentando il Vangelo della III domenica del tempo ordinario.

Dopo l’esperienza del deserto, Gesù inizia la vita pubblica, la sua missione, che lo porterà al dono pieno di sé al Padre e a tutti gli uomini. Le sue prime parole sono: “Il tempo è compiuto, il regno di Dio è vicino, convertitevi e credete nel Vangelo”. Questa è la buona notizia che Gesù ha da comunicare.
Il tempo è compiuto, l’attesa dei popoli per secoli è giunta alla sua realizzazione: Gesù, il Salvatore degli uomini, è venuto, offre tutto se stesso. Il regno di Dio è vicino, il progetto di salvezza e di amore del Signore si sta realizzando, si sta compiendo. Dio rinnova e porta a pienezza la sua alleanza con il suo popolo e con tutta l’umanità.

“Convertitevi e credete nel Vangelo”. Convertirsi e credere nel Vangelo non sono due cose diverse o in qualche modo soltanto accostate tra loro, ma esprimono la medesima realtà. Convertirsi significa seguire Gesù in modo che il Suo Vangelo sia guida concreta dell’esistenza. È Gesù la meta finale e il senso profondo della conversione, è Lui la via sulla quale tutti sono chiamati a camminare nella vita, lasciandosi illuminare dalla Sua luce e sostenere dalla Sua forza.

Concludo ricordando un’affermazione di papa Francesco: “Nel tempo di Quaresima, lo Spirito Santo sospinge anche noi, come Gesù, ad entrare nel deserto. Non si tratta di un luogo fisico, ma di una dimensione esistenziale in cui fare silenzio, metterci in ascolto della parola di Dio, perché si compia in noi la vera conversione”.

Gesù guarisce un lebbroso.

Marco 1,40-45 VI Domenica del tempo ordinario
Gesù guarisce un lebbroso.
Il termine lebbra indica uno dei flagelli più temuti, segno di corruzione, simbolo del peccato. Era considerata un castigo di Dio. Il lebbroso è impuro, deve essere isolato da tutto ciò che è puro per non contaminarlo col semplice suo tocco; viene isolato da tutto ciò che è Santo, non può celebrare il culto, viene radicalmente escluso dalla società e dalla Comunità religiosa.( Lv. 13,45-46: «Il lebbroso porterà vesti strappate e il capo scoperto, si coprirà la barba e andrà gridando: Immondo! Immondo! Sarà immondo finché avrà la piaga; è immondo, se ne starà solo, abiterà fuori dell’accampamento».)

Ciò che è essenziale nel racconto di Marco non è tanto la guarigione del lebbroso, ma il modo in cui ciò avviene: Gesù si avvicina a lui e lo tocca, non si limita a compiere il miracolo a distanza.
Il lebbroso è presentato solo attraverso la sua malattia, non ha un nome: è un lebbroso e ciò lo definisce. La malattia gli ha tolto identità e dignità.

Egli “venne” da Gesù, non si tratta solo di un movimento spaziale ma anche di un movimento dello Spirito perché gli dice “se vuoi puoi guarirmi”. Secondo la concezione giudaica, solo Dio può guarire dalla lebbra. Così dicendo mostra di credere in Gesù.

Gesù, accogliendo e guarendo il lebbroso, rivela il volto misericordioso del Padre. Egli era un escluso, un impuro, doveva essere allontanato. Chi lo toccava diventava a sua volta impuro! Ma quel lebbroso ebbe molto coraggio. Invece che gridare “immondo”, gridò: “Se tu vuoi, puoi guarirmi “ Come a dire: “ Non hai bisogno di toccarmi! Basta che tu lo voglia, ed io sarò guarito”! E Gesù profondamente commosso, guarisce due mali: in primo luogo, per curare la solitudine, tocca il lebbroso. E’ come se dicesse: “Per me, tu non sei un escluso. Io ti accolgo come un fratello!” E poi lo cura, premia la sua fede, dicendo: ” Lo voglio! Sii guarito!”

Il lebbroso, entrando in contatto con Gesù, ha trasgredito le norme della legge. Anche Gesù, nell’ aiutare quell’escluso, trasgredisce le norme della religione e tocca il lebbroso. Gesù, non solamente guarisce, ma vuole anche integrare di nuovo gli esclusi nella convivenza fraterna, vuole che la persona curata possa vivere con gli altri, sia inserita di nuovo nella comunità.

Gesù comanda al risanato di osservare la Legge, di presentarsi al sacerdote che certifichi la sua guarigione e la piena riammissione nella comunità religiosa. Questo ci dice che Gesù supera la Legge, ma per portarla a compimento, non la abolisce ma le dà il significato pieno: la Legge è al servizio della misericordia di Dio e del suo potere di salvezza. La Legge da sola non guarisce e non salva, è Dio che salva!
Gesù inaugura e vuole una società nuova che non emargina, non separa, non esclude, che non ha paura del contatto con l’impuro. Una società in cui il contagio è rovesciato: è il puro che contagia l’impuro risanandolo!

Nel comando di Gesù: “Va’ e presentati al sacerdote” c’è anche l’allusione chiara al sacramento della Riconciliazione o della Misericordia di Dio, il peccato infatti, è la lebbra dell’anima, ci tiene lontani da Dio e dalla comunione con i fratelli, Gesù perdonando il nostro peccato risana l’anima restituendola alla comunione dei Santi.

La guarigione dalla malattia è un dono dato dalla fedeltà all’alleanza, basato sulla promessa di Dio, secondo quanto detto in Es 23,25-26 («Voi servirete al Signore, vostro Dio. Egli benedirà il tuo pane e la tua acqua. Terrò lontana da te la malattia. Non vi sarà nel tuo paese donna che abortisca o che sia sterile. Ti farò giungere al numero completo dei tuoi giorni»), e ripetuto in Dt 7,15 («Il Signore allontanerà da te ogni infermità e non manderà su di te alcuna di quelle funeste malattie d’Egitto, che bene conoscesti »). La condizione perché la promessa del Dt abbia effetto è però che Israele rimanga fedele all’impegno con Dio. Dalla storia della Salvezza conosciamo le numerose infedeltà del Popolo di Dio.

Questa guarigione quindi, sembra essere segno della rinnovazione imminente dell’alleanza, nella quale tutto l’Israele di Dio verrà reintegrato, anche gli esclusi a causa di impurità di qualsiasi genere. Non deve mancare nessuno all’appello: né i dispersi di Israele, né i malati o gli infermi, né coloro che sono impuri.
Scrive un commentatore: «Il Messia Gesù ha ristabilito le relazioni rotte, così come ha sanato i corpi toccati dalla malattia, e ha portato un nuovo popolo di Dio all’esistenza» (Hare).
La Chiesa è questo Nuovo Popolo di Dio, per questo non può esistere una Chiesa di Gesù che emargina, che non sia accogliente ed inclusiva (dell’uomo, non del peccato)!

Gesù proibisce al lebbroso di parlare della guarigione. Il Vangelo di Marco informa che questa proibizione non servì a nulla. Quello, allontanatosi, cominciò a divulgare il fatto, al punto che Gesù non poteva più entrare pubblicamente in una città, ma se ne stava fuori, in luoghi deserti (Mc 1,45). Gesù aveva toccato il lebbroso, ora lui stesso era un impuro e doveva essere allontanato da tutti. Non poteva più entrare nelle città.

Il lebbroso, guarito, può liberamente partire e raggiungere altre persone; sanato, diventa missionario: «cominciò ad annunciare», divulgando «la parola». Nulla viene detto della sua gioia ma l’evangelista ci racconta ciò che fa, travolto dalla gioia.
Gesù, per contro, deve recarsi in luoghi deserti, «fuori», quasi assumendo su di sé la sorte dell’immondo, costretto proprio a stare «solo, fuori dell’accampamento» (Lv 13,46). Gesù si è fatto carico della sorte del malato condividendola, pagando sulla propria pelle questa condivisione. Si è esposto al contagio e all’impurità tendendogli la mano e toccandolo.

C’è qui un’anticipazione di quello che farà quando, condividendo la crocifissione con i disperati della terra, si farà, dice Paolo, “maledizione per noi” (Gal 3,13).D’ora in poi tutti gli emarginati e tutti i disperati potranno riconoscersi in quest’Uomo-Dio che ha scelto di condividere la sua emarginazione. Dice Papa Francesco: “ Gesù prende su di sé le nostre sporcizie, le nostre impurità al punto che, per avvicinarsi a noi, si fece peccato”. Marco, concludendo, ci dice che alla gente importavano poco queste norme ufficiali, infatti venivano a lui da ogni parte (Mc 1,45).

Riflessioni conclusive:
- Gesù ascolta le preghiere di chi si fida di lui, si commuove alle suppliche di chi lo invoca.
- Gesù mostra il volto misericordioso del Padre che vuole la salvezza di ogni uomo.

–La salvezza e la felicità è offerta a tutti, nessuno escluso. L’ira di Dio è contro il peccato, ma accoglie con amore il peccatore che lo invoca perché si converta e viva.

–Gesù non abolisce la Legge ma la porta a compimento perché non sia una gabbia che imprigiona, ma strumento dell’amore misericordioso del Padre.

Gesù insegna con autorità

IV Dom T.O. MARCO 1,21-28 a cura di Elena Stranieri

Siamo all’inizio del Vangelo di Marco, il brano seguente di quello della settimana scorsa. Dopo aver invitato alla conversione, Gesù chiama i primi discepoli e poi inizia la sua missione, predicando nella città di Cafarnao.

Se la parola chiave della domenica scorsa era “convertitevi e credete al vangelo”, quella di questo testo potrebbe essere “insegna con autorità”.

v.21: in giorno di sabato, da pio ebreo, Gesù entra nella sinagoga, come tutti gli altri, come tutti i cosiddetti maestri.
Anche gli altri evangelisti sinottici (Matteo e Luca) sottolineano lo stupore della folla che ascolta l’insegnamento di Gesù. Era diverso: gli scribi insegnavano citando le autorità, Gesù parte dalla sua esperienza di Dio e dalla sua vita, La sua parola è NUOVA, ha radici nel cuore, sveglia qualcosa nel cuore di chi ascolta.

v.23: si presenta un uomo posseduto da uno spirito immondo, da un demone, ostile alla purezza religiosa che si respira nella sinagoga. Riconosce in Gesù il profeta consacrato a Dio, sa che la sua parola lo distrugge, vince il male, apre la strada alla verità scacciando falsità, contraddizioni, peccato.

v.25: Gesù scaccia il demone: restituisce la persona a se stessa, restituisce coscienza e libertà, fa recuperare alla persona la sua capacità di giudizio.
Chiede il silenzio, lo zittisce: svelando che Gesù è il SANTO DI DIO, ci sarebbero stati fraintendimenti sulla sua missione: il popolo si sarebbe fatto una idea nazionalistica e guerriera della sua identità, aspettandosi da lui interventi politici (vedi Giuda).

La sua missione deve giungere a compimento, fino a Gerusalemme, al calvario, alla croce e alla resurrezione: solo allora sarà rivelato che Cristo è il figlio di Dio da parte del centurione e di Pietro “Tu sei il Cristo di Dio”.

v.28: la gente è stupita del modo di insegnare e dell’autorità che Gesù ha persino sugli spiriti immondi.

SUBITO: torna questa parola per indicarci come l’accoglienza della Parola di Gesù sia immediata, accenda i cuori e le menti di chi ascolta.

Questo testo, oggi, richiama alla mente e al cuore di ciascuno di noi l’urgenza di:

• Un ascolto serio, profondo, continuo della Parola del Signore
• Un’adesione pronta al suo insegnamento
• La disponibilità a seguirlo.

Convertitevi e credete nel Vangelo.

III DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO o della Parola di Dio (ANNO B)
Commento (Mc 1, 14-20) a cura di Chiara Lanza.

Il brano si divide in due parti: nella prima Gesù inaugura la sua predicazione, dopo il battesimo e le tentazioni nel deserto, e nella seconda è narrata la chiamata dei primi quattro discepoli.

Nei vv. 14-15 (1^ parte) Marco sottolinea che Gesù comincia a predicare “dopo che Giovanni Battista fu arrestato”. Proprio nel momento in cui la voce profetica del Battezzatore, che annunciava la venuta del Regno di Dio, viene messa a tacere da Erode, Gesù inizia a percorrere le strade della sua terra per portare a tutti il “Vangelo di Dio”.
L’annuncio di Gesù è simile a quello di Giovanni, con la differenza sostanziale che Gesù non indica più un altro che deve venire: Gesù è il compimento delle promesse.
È quindi evidente, per così dire, il “passaggio del testimone” da Giovanni Battista a Gesù. Giovanni è stato il suo precursore, gli ha preparato il terreno e gli ha preparato la strada: ora Gesù può iniziare la sua missione e annunciare la salvezza ormai presente: è Lui la salvezza.

La sua predicazione è sintetizzata in queste parole: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete nel Vangelo» (v. 15). È un messaggio che ci invita a riflettere su due temi essenziali: il tempo e la conversione.

In questo testo, il tempo va inteso come la durata della storia della salvezza operata da Dio; quindi, il tempo “compiuto” è quello in cui questa azione salvifica arriva al suo culmine, alla piena attuazione: è il momento storico in cui Dio ha mandato il Figlio nel mondo e il suo Regno si è fatto più che mai “vicino”. È compiuto il tempo della salvezza perché Gesù è arrivato. Con l’avvento di Gesù c’è un tempo nuovo che prima non c’era. È un tempo nuovo in senso qualitativo.

In che cosa consiste la conversione? Consiste nel cambiare mentalità, riorientare lo sguardo: non seguire più i modelli del mondo, ma quello di Dio, che è Gesù.
“Convertirsi” è la condizione necessaria per poter “credere nel Vangelo” e credere nel Vangelo ha una dimensione molto profonda. Oltre a credere in un contenuto, significa aderire a Gesù, riponendo in Lui la propria fiducia. Credere non significa solo sapere che Dio esiste o che Gesù è risorto, ma significa poggiare su di Lui la propria esistenza; credere è un atto che coinvolge intelletto, affetto, libertà e volontà.

Nei vv. 16-20 (2^ parte) vi è la chiamata dei primi quattro discepoli.
L’annuncio evangelico, di cui si è parlato precedentemente, ha il suo primo effetto in quattro ascoltatori pienamente disponibili. Passando lungo il mare di Galilea, si tratta naturalmente del lago di Tiberiade o di Genezaret, vide Simone e Andrea mentre gettavano le reti… Andando un poco oltre, vide Giacomo e Giovanni, mentre riparavano le reti.

Che cosa avrà visto Gesù in quei pescatori? In fondo essi stavano facendo semplicemente il loro lavoro. Gesù ha osservato questi uomini mentre lavoravano e ha visto la loro grandezza, ha visto i loro cuori. Non è mai ciò che fai che ti rende grande, ma è la tua grandezza a rendere bello e importante ciò che fai. Anche quando siamo affaccendati in azioni che apparentemente sembrano lontane dalla fede, siamo guardati, amati, scelti, benedetti, sostenuti dal Signore. Nessuna azione umana è priva della presenza di Dio.

Venite dietro a me (v.17) e chiamò (v.20) – Quindi “seguitemi”. Seguire è “andare dietro” a qualcuno a cui si vuole restare vicini, facendo la sua stessa strada e condividendo le sue scelte. Indica un movimento, non uno stare fermi. Sequela è andare dietro al Maestro senza la pretesa di determinare la direzione, lasciando a lui l’iniziativa. Quindi non mettersi davanti a Gesù per portarlo dove vogliamo noi, ma muoversi dietro a Lui: è Gesù che traccia la strada, che guida il cammino.

Il Vangelo sottolinea che al primo posto non c’è una dottrina, ma un modo di vivere. Nel mondo ebraico è sempre il discepolo che sceglie il maestro, qui invece è Gesù che sceglie il discepolo e lo chiama a seguirlo, lo chiama a una comunione con Lui.

Seguirlo, ossia imitarlo, diventa un chiedersi in ogni circostanza: Gesù al mio posto cosa farebbe? Che cosa mi dice di fare nel Vangelo? Significa cercare di assimilare i suoi sentimenti attraverso la preghiera, i sacramenti, la meditazione della Parola di Dio, sino a poter dire con S. Paolo: “Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me” (Gal 2,20).
Dio vuole che noi diventiamo gli strumenti visibili del suo amore.
Vi farò diventare pescatori di uomini – Quindi da pescatori di pesci a pescatori di uomini. Il pescatore quando pesca non pensa al pesce, ma a se stesso, a quanto può guadagnare e mangiare facendo morire il pesce pescato. Pescare il pesce è infatti tirarlo fuori dal suo ambiente e farlo di conseguenza morire. Gesù chiama ad una svolta radicale di mentalità e azione, usando lo stesso termine “pescare”.
“Pescare gli uomini” significa tirarli fuori dal male, dal caos, dal non-senso (simboleggiati dalle acque del mare) per ridare vita, speranza, prospettiva di futuro. E questo viene fatto non per sé stessi ma per l’altro, per chi viene pescato-salvato. Dal “per me” al “per te”, da scelte di morte a scelte di vita, dal vivere alla giornata al vivere per l’eternità. Questo è possibile proprio seguendo Gesù, primo pescatore di uomini, imparando da Lui, non stancandosi di imparare continuamente dal Vangelo.
La chiamata non è fine a se stessa, non è qualcosa solo per noi, ma è sempre per una missione. Gesù non sente il bisogno di salvare il mondo da solo, desidera invece la nostra collaborazione.

Vi farò - Gesù apre al futuro: i discepoli, nel momento in cui lasciano tutto per seguirlo, non sono ancora perfetti, dovranno crescere, imparare. Pensiamo a Pietro: dovrà passare dal rinnegamento per conoscere davvero se stesso e fare esperienza della misericordia del Signore. La conversione non si esaurisce in un momento, ma è un cammino che dura tutta la vita. Gesù non chiama chi è competente, ma rende competente chi chiama.

Simone e Andrea lasciarono le reti – Le reti sono il capitale, il mezzo di lavoro del pescatore. L’appello di Cristo esige un distacco. In questo caso allora rappresentano tutto ciò che impedisce di seguire immediatamente Cristo: le comodità, le abitudini, le tradizioni…
Giacomo e Giovanni lasciarono il loro padre nella barca con i garzoni - Il racconto riguardante Giacomo e Giovanni pare una ripetizione del precedente, in realtà ci sono delle differenze. Questi due erano più benestanti di Simone e di Andrea perché avevano anche dei dipendenti. “Lasciano il padre”, quindi la famiglia, la tradizione. Poi abbandonano i garzoni: non ci sono più servi, non ci sono più delle persone a cui possiamo imporre la nostra volontà, la logica del Vangelo non lo ammette. Il cristiano deve vivere come servo di tutti e padrone di nessuno.

Subito - Marco sembra abusare della parola subito. Al subito di Simone e Andrea nel rispondere, fa seguito il subito di Gesù nella chiamata di Giacomo e Giovanni.
Alla proposta di Gesù, i pescatori di Galilea aderiscono immediatamente sentendo le loro barche troppo piccole e l’orizzonte del lago (che non è piccolo) troppo limitato. Lasciano “tutto” perché sembra così poco e povero in confronto alla proposta di Gesù di diventare portatori di vita, annunciatori di speranza, costruttori di pace. Che cosa può aver indotto Simone, Andrea, Giacomo e Giovanni a rispondere all’invito di Gesù così prontamente?

Tutto parte dallo sguardo del Signore mentre cammina in ricerca. La risposta è pronta perché si sentono amati. A proposito dell’amore di Dio, Giovanni (3,16) afferma che “Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito”. Ricordiamo poi i seguenti passi: “Perché tu sei prezioso ai miei occhi, perché sei degno di stima e io ti amo…” (Is 43,4) e “Ti lodo, perché mi hai fatto come un prodigio…” (Sal 139,14).

Come ci vede Dio vuol dire chi siamo noi per Dio. Papa Benedetto ha affermato che il Signore “ci ha guardato negli occhi e, dentro l’anima, ha trovato dei tesori nascosti a noi stessi”.
Questi pescatori si sono fidati di Dio e Dio li ha portati dove mai da soli essi sarebbero andati. Dio ha compiuto grandi cose con loro perché non hanno voluto decidere loro. Hanno donato la loro vita al Dio della Vita. Donarsi a Dio significa lasciarsi portare, plasmare da Lui, insomma lasciare che Lui ci porti là dove ci deve portare.

Fratello - Gesù chiama dei fratelli. I suoi primi discepoli sono “pescati” da una fraternità. Li chiama insieme. E anche se la loro storia sarà per ciascuno unica, ciò che colpisce è la predilezione che Gesù ha per la fraternità, per le relazioni, per gli “insiemi”.

Concludo sottolineando che la chiamata dei primi discepoli si presenta come esempio concreto di conversione. Ecco alcuni passi importanti:

1. L’iniziativa è di Gesù: passa, vede, chiama. 2. La chiamata di Gesù ha una nota di urgenza. All’appello si deve rispondere subito. 3. I discepoli sono chiamati a 2 a 2, perché siamo chiamati a vivere la comunione, non l’isolamento. 4. L’appello di Gesù esige distacco e un distacco radicale. 5. Il distacco è la condizione per “seguire” e seguire significa percorrere la strada del Maestro, entrare nella sua intimità e nel suo stile di vita. 6. Gesù incontra l’uomo nel concreto della vita. 7. L’invito a seguire si traduce nel servire.