Salta navigazione.
Home

2022/23 - Catechesi Adulti

In questo nuovo anno pastorale gli incontri di catechesi per gli adulti saranno centrati sulla presentazione del Vangelo domenicale dell’anno A. Abbiamo pensato con Don Andrea, che questo possa aiutare tutti noi a prepararci meglio per la partecipazione alla Santa Messa domenicale, affinché il brano del Vangelo in essa proclamato possa illuminare tutta la nostra settimana, certi che la meditazione della pagina evangelica ci possa aiutare a calare meglio nella vita quotidiana i comportamenti e gli atteggiamenti a cui il Signore vuole educarci. Gli incontri partiranno dal martedì precedente l’inizio del nuovo anno liturgico e si svolgeranno nella canonica di Sant’Egidio alle ore 19, subito dopo la messa vespertina. Nel tempo forte dell’Avvento ci ritroveremo tutte le settimane per intensificare la preghiera e la vigilanza in preparazione al Natale del Signore. Da gennaio si potrà riprendere la cadenza quindicinale. Ci accompagnerà l’Evangelista Matteo. IL VANGELO SECONDO MATTEO Scritto negli anni tra il 70 e l’80, il Vangelo di Matteo si sviluppa attorno a cinque grandi discorsi di Gesù: il discorso della montagna, il discorso missionario, il discorso in parabole, il discorso ecclesiale, il discorso escatologico. Attraverso la struttura letteraria che fa perno sui cinque discorsi, si svolge la storia di Gesù, a testimonianza che il Vangelo, prima che una dottrina, è una storia, una Persona: Gesù Cristo Salvatore. Matteo unisce con sapienza i fatti e la catechesi che da essi scaturisce sull’esempio di Gesù che illumina e commenta quanto accade. Con l’intento di mostrarci il significato salvifico della sua persona, della sua parola, della sua vicenda, Matteo ci presenta Gesù, il Maestro, il nuovo Mosè superiore all’antico, il Profeta portatore della Parola di Dio ultima e definitiva. In tal modo il giudaismo è invitato a superarsi e ad aderire al Vangelo di cui esso è preparazione: la parola ultima non è quella di Mosè, né la tradizione dei padri, ma la Parola di Gesù. Il Vangelo di Matteo sviluppa inoltre il tema della Chiesa: è l’unico che mette in bocca a Gesù la parola “ecclesia” (16,18; 18,17) e i temi trattati sono scelti in base alle esigenze della comunità. Quella per cui l’evangelista scrive è una grande comunità giudeo-cristiana che vive nei dintorni della Palestina: ad essa Matteo vuole mostrare la continuità con l’Antico Testamento e il compimento delle profezie nella persona di Gesù. Le frequenti citazioni dall’A.T. servono appunto a dimostrare che la storia di Gesù di Nazareth è in profonda armonia con le Scritture. Il Vangelo di Matteo risulta particolarmente vivo e attuale anche perché non passa sotto silenzio i problemi interni alla stessa comunità cristiana e le molte situazioni che necessitano di essere chiarite e illuminate dalle esigenze di Gesù: come concepire la missione in mezzo ai pagani e come condurla? Come risolvere le questioni inerenti il matrimonio, le ricchezze, l’autorità? Che posizione prendere di fronte alle divisioni che affiorano nella stessa comunità e di fronte ai peccati che continuano a moltiplicarsi e agli scandali? Mettiamoci insieme alla scuola della Parola del Signore e lasciamoci trasformare da essa. Lo Spirito Santo illumini il nostro cammino e scaldi i nostri cuori col fuoco del Suo Amore. Vi aspettiamo numerosi, Don Andrea, Elena, Chiara e Aurora.

La Parabola del Giudizio Finale

Mt 25,31-46

Il Vangelo dell’ultima domenica dell’anno liturgico ci presenta Cristo, Re-Pastore dell’umanità, impegnato nel Giudizio; è un racconto escatologico, di carattere apocalittico.
Gesù si rivolge ad un ampio auditorio non solo ai discepoli e alle folle che lo seguono, ma a tutte le genti.

Il racconto si rifà ad un’immagine del Talmud in cui Dio, alla fine dei tempi, giudicherà gli uomini rispetto alla loro osservanza della Legge. Nel testo di Matteo, al centro di tutto, non c’è il rapporto tra l’uomo e la Legge, né la relazione con Dio, ma la nostra capacità di amare i fratelli. Il giudizio pronunciato si basa sulle opere di misericordia che saremo capaci di realizzare nei confronti di coloro che vivono nella sofferenza e nel bisogno, i poveri e gli indifesi.

Il brano si apre con la solenne presentazione del giudice; egli verrà come il regale “figlio dell’uomo” del libro di Daniele (7,13-14) nella sua «gloria», con tutta la corte celeste (cfr. Zc 14,5) per radunare tutte le genti.

Chi sono le "genti" convocate a giudizio?
Le genti sono tutti i popoli delle nazioni, credenti e non credenti. Essi ricevono il mandato di comparizione e, giunti dinanzi al giudice supremo, ricevono il giudizio.
Al centro del racconto non è tanto la raccolta ma ciò che segue, la separazione. L’immagine del Messia-pastore che separa, evoca la prassi, frequente in Palestina, di separare la sera le pecore dalle capre, perché le capre di notte hanno bisogno di stare al riparo, mentre le pecore preferiscono stare all’aria aperta.

Il Figlio dell'Uomo, riunite attorno a sé le nazioni del mondo, le separa come fa il pastore con le pecore e i capri: pecore a destra, capri a sinistra. Gesù, non giudica né condanna (cf. Gv 3,17; 12,47). Lui separa. E' la persona stessa che si giudica e si condanna per il modo in cui si è comportata con i piccoli e gli esclusi.
Il giudizio inizia con le pecore che sono alla destra del giudice sono chiamate "Benedetti dal Padre mio!", cioè, ricevono la benedizione che Dio promette ad Abramo ed alla sua discendenza (Gen 12,3). Il Giudice- Re, elenca quindi sei azioni di bisogno, di sofferenza, di necessità da parte dell’umanità con le risposte che sono state date; nessuno di essa riguarda Dio, ma ciò che è stato fatto rispetto a chi è nel bisogno. Le opere di misericordia presentate sono quelle tradizionali. Il Re- Giudice le dichiara come riferite a lui, fatte alla sua stessa Persona . Gesù si identifica con i piccoli! Coloro che accolsero gli esclusi sono chiamati "giusti". Ciò significa che la giustizia del Regno non si raggiunge osservando norme e prescrizioni, bensì accogliendo i bisognosi. Ma è curioso che i giusti non sappiano nemmeno loro quando hanno accolto Gesù bisognoso e chiedono chiarimenti. E Gesù risponde: "Ogni volta che avete fatto queste cose a uno di questi miei fratelli più piccoli, l'avete fatto a me."
Chi sono questi "miei fratelli più piccoli"? In altri passaggi del Vangelo di Matteo, le espressioni "miei fratelli" e "più piccoli" indicano i discepoli (Mt 10,42; 12,48-50; 18,6.10.14; 28,10). Indicano anche i membri più abbandonati della comunità, i disprezzati che non hanno posto e non sono ben ricevuti (Mt 10,40). Gesù si identifica con loro. Ma non solo questo. Nel contesto più ampio della parabola finale, l'espressione "miei fratelli più piccoli" si allarga ed include tutti coloro che non hanno posto nella società. Indica tutti i poveri. Ed i "giusti" ed i "benedetti dal Padre mio" sono tutte le persone di tutte le nazioni che accolgono l'altro in totale gratuità, indipendentemente dal fatto che siano o no cristiani.

«Poi dirà anche a quelli che saranno alla sinistra: “Via, lontano da me, maledetti”»: mentre prima Gesù ha chiamato i giusti “benedetti dal Padre mio”, qui dichiara costoro “maledetti”, ma non dal Padre suo, perché Dio non maledice; questa maledizione – è l’unica che appare nel vangelo – richiama la prima maledizione presente nel libro della Genesi, scagliata su Caino che ha assassinato il proprio fratello. Non offrire aiuto, non rispondere agli elementari bisogni, alle sofferenze, alle necessità degli altri, equivale a un omicidio. Sono maledetti non da Dio, ma dal loro egoismo, dalla loro chiusura ai bisogni degli altri. Essi sono destinati al fuoco eterno, preparato per il diavolo ed i suoi amici. Gesù usa un linguaggio simbolico comune in quel tempo per dire che queste persone non entreranno nel Regno. Ed anche qui il motivo è uno solo: non accolsero Gesù affamato, assetato, straniero, nudo, malato e prigioniero. Non è che Gesù impedisce loro di entrare nel Regno, bensì il nostro agire, cioè la cecità che ci impedisce di vedere Gesù nei più piccoli.

Anche queste persone chiedono chiarimenti: loro credono di aver servito il Signore nella liturgia, nel culto, pensano di avere la coscienza in pace, per questo rimangono meravigliati, non hanno compreso che Dio vuole essere servito nell’amore ai più bisognosi. Il destino eterno di ogni uomo si gioca quindi ogni giorno nel rapporto di accoglienza o di rifiuto del Cristo nella persona di ciascun uomo. "Ogni volta che non avete fatto queste cose a uno di questi miei fratelli più piccoli, non l'avete fatto a me". E' l'omissione! Non hanno praticato il bene verso i più piccoli e gli esclusi. E continua la frase finale:” costoro sono destinati al fuoco eterno, ed i giusti alla vita eterna”.
Chi sono i fratelli più piccoli di Gesù?
I fratelli più piccoli del Signore sono coloro - donne, bambini, uomini - che muoiono per fame, per malattie incurabili per mancanza di medicine, che muoiono per mancanza d'acqua; sono coloro ai quali non sono riconosciuti i diritti fondamentali dell'esistenza e che sono sfruttati senza alcun rispetto per la dignità umana; sono quelli che non contano, che non hanno voce, gli esclusi e i dimenticati dalla società.

Nella Scrittura Dio si immedesima fortemente con i poveri; è questo il metro dei rapporti sociali. Imprimiamo questa frase nei nostri cuori: "In verità vi dico che quanto l'avete fatto a uno di questi miei fratelli più piccoli, l'avete fatto a me".

Di chi e a chi sta parlando il nostro testo, dei cristiani o dei pagani?

"Se parla dei Cristiani, il significato è che non basta lodarlo a parole dicendo "Signore, Signore!" ma bisogna anche soccorrere i bisognosi. Come possiamo imparare ad amare tutti e ciascuno? Solo se viviamo tra noi la carità reciproca, a cominciare da coloro che abbiamo vicini ogni giorno, possiamo imparare a vivere un amore universale verso tutti gli uomini.

Se, come è probabile, esso parla dei pagani… Il pagano che non ha mai sentito pronunziare il nome di Gesù l'ha tuttavia ogni giorno davanti agli occhi nella persona del povero; e se egli accoglie il bisognoso, accoglie, senza saperlo, il Messia stesso. La mera ignoranza del nome di Gesù non è un impedimento alla salvezza per chi ama il prossimo… tanto è grande il potere dell'amore!

La vera discriminante non è dunque tra chi accetta o meno una dottrina, ma tra chi pratica e chi non pratica l'amore del prossimo".

«E se ne andranno questi al supplizi eterno (che significa il fallimento definitivo della propria vita, dove la punizione non è dovuta al Padre, ma ad essi stessi, alle loro azioni ed omissioni, alla mancanza di amore in cui hanno vissuto) e i giusti alla vita eterna».

È un richiamo al doppio comandamento dell'amore: "Ama il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente. Questo è il grande e il primo comandamento. Il secondo, simile a questo è: "Ama il prossimo tuo come te stesso" (Mt. 22,37-39).

Infatti, «la santità non consiste nel fare ogni giorno cose più difficili, ma nel farle ogni volta con più amore» (S. Teresa d’Avila).

Che il Signore ci aiuti a far risplendere la nostra luce, è scritto infatti in Mt 5,16: "Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, affinché vedano le vostre buone opere e glorifichino il Padre vostro che è nei Cieli". Amen.

Parabola dei talenti

XXXIII domenica del Tempo Ordinario - anno A (Mt 25, 14-30)

La “Parabola dei Talenti” si colloca tra la parabola delle Dieci vergini e la parabola del Giudizio finale. Queste tre parabole chiariscono il concetto relativo al tempo dell'avvento del Regno.

Subito dopo la parabola delle vergini, il versetto seguente (inizio del vangelo di oggi), riprende: “Come infatti”. Sembra che Matteo voglia approfondire un discorso già iniziato. La parabola dei talenti, infatti, esplicita ulteriormente come si deve vegliare: essendo responsabilmente attivi nella costruzione del Regno di Dio, che è la presenza di Dio nella storia; accogliendo i doni divini e trasformandoli con sensibilità e fantasia creatrice.

La scena si apre con «un uomo» in partenza per un viaggio che lo terrà lontano per molto tempo. Il generico «uomo» dell'inizio diventerà al v. 19 «il padrone» che, nella lettura del testo greco, evoca anche il «signore» ed anche, in senso forte, «il Signore». È un uomo molto ricco, possiede dei beni che consegna ai suoi servi per la gestione. Questa nota merita attenzione. Egli avrebbe potuto provvedere direttamente alla loro amministrazione, per esempio affidandoli ad una banca. Invece è un uomo che ama rischiare e investire in fiducia data alle persone. Egli affida tutto il suo capitale ai suoi servi, affinché siano loro ad amministrarlo con frutto.

La ripartizione del capitale è differenziata: al primo servo sono affidati cinque talenti, al secondo due e al terzo uno. Può sorprendere e disorientare questa diversità. Il padrone ha distribuito il suo capitale «secondo le capacità di ciascuno». Questo denota che egli conosce bene i suoi dipendenti ed è rispettoso della capacità (in greco dynamis = forza, potenza) di ciascuno. La scelta fatta dal padrone non si basa su di un criterio di giustizia intesa come distribuzione in parti uguali, ma sul principio fondamentale di rispetto della persona. La persona sta al centro dell'interesse, non il denaro; la scelta del padrone è dettata dall'amore verso la persona, apprezzata in quanto tale.

Il padrone ha compiuto un atto di fiducia e di incoraggiamento. Come ha rischiato lui, così devono saper rischiare anche loro.

Il primo servo riceve cinque talenti, li fa fruttare e ne guadagna altri cinque. Con la sua iniziativa egli rende fruttuoso il capitale consegnatogli e lo raddoppia. Egli ha messo a frutto intelligenza e buona volontà, dinamismo e intraprendenza, partecipando così in modo personale alla costruzione di un nuovo capitale. Quasi "in fotocopia" è presentato il secondo servo, la cui unica variante sta nella diversa quantità di denaro ricevuta e guadagnata.

Il terzo servo costituisce la variante al racconto e con lui il meccanismo si inceppa. Non riesce a raddoppiare il capitale, solo perché non ci ha provato. Ha seguito una strada apparentemente logica, quella della conservazione del denaro. Egli rappresenta la parte non produttiva, statica, ingessata, in opposizione alla parte attiva e dinamica simboleggiata dagli altri due. Sono in contrasto due atteggiamenti, il fare e il non fare.

Fin qui la parabola ha messo in luce le azioni dei personaggi. La seconda parte della parabola, quella dialogica, attraverso la viva voce dei personaggi, fa emergere i loro sentimenti e le loro motivazioni profonde.

Nei discorsi dei primi due servi compaiono due verbi interessanti: «mi hai consegnato» e «ho guadagnato». Il primo esprime la fiducia del padrone e il secondo la risposta fedele del servo. Il rischio corso dal padrone ha avuto esito positivo. I due servi, sollecitati dalla fiducia accordata dal padrone, che ha messo nelle loro mani una gigantesca fortuna, hanno saputo esprimere la loro personalità e far risaltare le loro attitudini. Anche loro hanno rischiato e gli è andata bene.

La risposta del padrone, identica per entrambi, esprime un elogio («Bene, servo buono e fedele»), una ricompensa materiale («Sei stato fedele nel poco, ti darò potere su molto») e, infine, una ricompensa morale, spirituale («Prendi parte alla gioia del tuo padrone»). Condividere la gioia significa unire i due alla vita stessa del padrone. È una metafora per dire che la ricompensa dei servi fedeli a Cristo o a Dio è la condivisione della sua stessa vita.

Il terzo servo rappresenta bene un modo comune di pensare, che trova ancora oggi tanti seguaci. Su di lui l'evangelista fissa la sua l'attenzione. Il servo inizia attaccando il suo padrone, facendone un ritratto cupo: «So che sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso». Lo considera un uomo che vuole arricchirsi utilizzando gli altri. Egli coglie solo l'aspetto economico, commerciale, e, di conseguenza, il vantaggio che sarebbe tutto ed esclusivo del padrone. Il servo non riesce a percepire l'opportunità che gli è stata data di esprimere se stesso e le sue qualità, di dimostrare la sua gratitudine e rispondere efficacemente alla fiducia accordatagli.

Poi il servo esprime i propri sentimenti: egli è animato dalla paura («ho avuto paura»), espressione di un legame servile e schiavistico. E la paura ha un effetto paralizzante. Blocca gli slanci, le iniziative, riduce al minimo i rapporti. Egli ha pensato bene di sotterrare il suo talento, in attesa di poterlo riconsegnare, integro: «Ecco ciò che è tuo». Egli pensa di uscire in parità: ha ricevuto un talento e ora lo restituisce.

Alla durezza del servo corrisponde una severa risposta del padrone, che lo definisce «Malvagio e pigro», due aggettivi diametralmente opposti a «buono e fedele» attribuiti ai primi due. Segue poi la condanna: la privazione del talento e la consegna a chi ne ha già dieci. La consegna a chi ne ha dieci risulta un po’ strana. Il testo vuole indicare che esistono solo due possibilità: avere o non avere. E chi ha, ha molto. Quindi, sembra di poter concludere, c'è una situazione – è la vita eterna – in cui non sono possibili le mezze misure: o si ha il massimo o non si ha nulla.

Una precisazione: i talenti non sono le inclinazioni naturali o le belle doti di cui uno è fornito. Il talento è un peso/moneta, che potremmo interpretare come l'insieme dei beni spirituali che il Signore accorda ad ogni uomo. Più specificatamente, i talenti sono i doni particolari che lo Spirito elargisce alle persone per il bene di tutta la comunità ecclesiale. Il senso fondamentale della parabola, dunque, è questo: ad un dono del Signore si risponde con la riconoscente accettazione e con il suo impiego o utilizzo.

Olio che illumina

Mt 25,1-13 a cura di Elena Stranieri
Gesù, entrato in Gerusalemme, prosegue il suo insegnamento ai discepoli e alla folla che lo segue e lo ascolta. Gesù affronta in questi capitoli il significato del Regno e le sue esigenze.
Abbiamo meditato poche domeniche fa la parabola del banchetto di nozze, quella dei vignaioli disonesti, e il quesito sul tributo a Cesare. La parabola di oggi prosegue gli insegnamenti sulla venuta del Regno e di Cristo Sposo.

Siamo in un contesto di nozze, festoso: si attende l’avvento dello sposo. Era usanza che lo sposo si presentasse alla casa della sposa a sera, accompagnato dal corteo delle vergini, per fare festa.
Lo sposo è Cristo che viene, le vergini rappresentano i cristiani che ne attendono la venuta.
Lo sposo tarda, sopraggiunge stanchezza e sonno.

Quando viene annunciato l’arrivo dello sposo, in fretta, bisogna prepararsi per entrare nella casa a fare festa. Ma è buio e serve la luce delle lampade.
Nella Bibbia la luce è segno di salvezza, di festa, di gioia:” La luce dei giusti porta gioia, la lampada dei malvagi si spegne” ( Pr. 13,9); ” Certamente la luce del malvagio si spegnerà (Giobbe). I cristiani portano la luce della Parola. Essa è la lampada che illumina il cammino.

Le vergini devono fare luce allo sposo perché possa raggiungere la casa della sposa. Ad alcune manca l’olio: la lampada senza olio si spegne. L’olio rappresenta la nostra fede concretizzata e testimoniata nelle opere buone compiute. Non può essere condiviso, perché ognuno è responsabile delle proprie scelte e delle proprie azioni ed omissioni.

Le vergini sagge non possono dare il proprio olio, e le stolte non hanno una scorta.
Lc 12,35:” state pronti, con le vesti strette ai fianchi e le lampade accese….”
Mc 13,33: “ vegliate dunque: voi non sapete quando il padrone di casa tornerà….”
Viene chiusa la porta: chi si è mostrato pronto è degno di partecipare alla festa di nozze viene fatto entrare.

Chi non si è dimostrato attento e pronto viene escluso, a nulla vale che bussi e chieda di entrare: “Non vi conosco” è la risposta dello Sposo.
E’ un rifiuto netto, definitivo, senza appello.

Con questa parabola il Signore sottolinea la necessità di attendere la sua seconda venuta preparandoci, vivendo della sua Parola, illuminando la nostra e altrui vita con la luce che emana dalla fede vissuta e non solo proclamata.

A volte la nostra fede si “assopisce”; il mondo anestetizza il nostro bisogno del Signore: Cristo ci chiede un extra, un di più di fede, di testimonianza, di amore.

Facciamo scorta dell’olio delle opere buone perché la lampada della nostra fede illumini il mondo che vaga nelle tenebre.

Amare Dio e il Prossimo, Cuore del Vangelo

XXX Dom. Mt 22,34-40 a cura di Chiara Lanza

Un dottore della Legge, un teologo diremmo noi, un esperto delle Scritture domanda a Gesù: «Maestro, qual è il più grande dei comandamenti?» Si tratta di un interrogativo serio e legittimo, motivato dall’esigenza di sintetizzare i numerosissimi precetti (613: 365 negativi e 248 positivi), che dovevano essere osservati da ogni persona veramente religiosa come garanzia di salvezza. Tale domanda è però viziata alla radice da un’ intenzione malvagia: mettere alla prova Gesù.

Gesù, pur accorgendosi della doppiezza del suo interlocutore, non lo ripaga con la stessa moneta, ma gli rivolge una parola franca e leale e risponde citando quello che definisce «il grande e primo comandamento». È un passo contenuto nel Deuteronomio: «Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente». Sappiamo bene che si tratta dello Shemà Israel («Ascolta, Israele...»: cf Dt 6, 4-9), la professione di fede ripetuta più volte al giorno dal credente ebreo.

Al Dio che ci ama di un amore eterno ( Ger 31, 3), a Lui che ci ama per primo (1Gv 4, 19), si risponde con un amore libero e pieno di gratitudine, un amore che prende tutto il nostro essere, la nostra vita e la nostra forza. Infatti le tre espressioni, cuore, anima e mente, indicano tutto l’uomo, che deve orientarsi verso Dio, perché l’amore non è solo un sentimento, ma un orientamento di vita. “Cuore” indica l’uomo interiore, “anima” l’energia vitale, il soffio e ”mente” l’aspetto razionale.

A questo punto Gesù compie un’importante innovazione, accostando al versetto del Deuteronomio uno tratto dal Levitico (19, 18): «Il secondo poi è simile a quello: Amerai il tuo prossimo come te stesso». È questa la novità introdotta da Gesù: mettere in relazione il comandamento dell’amore di Dio con quello del prossimo. Entrambi i precetti erano presenti nella Torah, ma nessuno li aveva mai equiparati.

Gesù ci dice che i due comandamenti si completano e si rispecchiano a vicenda. Non c’è vero amore di Dio se non c’è amore verso il prossimo. I due comandamenti sono indissolubilmente legati in modo da formare un unico comandamento, non c’è l’uno senza l’altro. Infatti, se ogni essere umano è creato da Dio a sua immagine (Gen 1, 26-27), non è possibile pretendere di amare Dio e, nello stesso tempo, disprezzare l’essere umano: «Se uno dice: “Io amo Dio” e odia suo fratello, è un bugiardo. Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede. E questo è il comandamento che abbiamo da lui: chi ama Dio, ami anche suo fratello» (1Gv 4, 20-21).

I due sono dunque un unico comandamento, che unisce il cielo alla terra, l’uomo a Dio, l’uomo all’uomo. Gesù mette insieme la dimensione verticale e orizzontale dell’amore, dichiarandole inscindibili e necessarie reciprocamente, proprio come esprime il segno della croce. Chi è il mio prossimo? Mio prossimo è chi ha bisogno di me. A chi è nel bisogno noi riveliamo il vero volto di Dio, aiutandolo; dimostriamo così che c’è in noi l’amore di Dio. L’amore verso il prossimo non è un amore generico ed astratto, ma richiede il nostro impegno.

Ricordiamo che Gesù si identifica con i bisognosi: affamati, assetati, forestieri, nudi, malati, carcerati e ricordiamo il passo: «Ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (Mt 25, 40).
Amore di Dio e amore del prossimo si fondono insieme: nel più piccolo incontriamo Gesù stesso e in Gesù incontriamo Dio. S. Agostino scriveva: “L’amore di Dio è il primo comandamento, ma l’amore del prossimo è primo come attuazione pratica… ama, dunque, il prossimo con il quale cammini, per poter giungere a Colui con il quale desideri rimanere”.

Quindi l’amore per il prossimo è una strada per incontrare Dio e chiudere gli occhi di fronte al prossimo rende ciechi anche di fronte a Dio. Papa Benedetto XVI ha affermato: “Se il contatto con Dio manca del tutto nella mia vita, posso vedere nell’altro sempre soltanto l’altro e non riesco a riconoscere in lui l’immagine divina. Se però nella mia vita tralascio completamente l’attenzione per l’altro, volendo essere solamente «pio» e compiere i miei «doveri religiosi», allora s’inaridisce anche il rapporto con Dio. Allora questo rapporto è soltanto «corretto», ma senza amore.

Solo la mia disponibilità ad andare incontro al prossimo, a mostrargli amore, mi rende sensibile anche di fronte a Dio”. Possiamo allora dire che la verifica che amo Dio è che amo il prossimo. Finché ci sarà un fratello o una sorella a cui chiudiamo il nostro cuore, saremo ancora lontani dall’essere discepoli come Gesù ci chiede.

Forse è più semplice e comodo per il fedele osservare norme, consuetudini, tradizioni, che lo dispensano dalla fatica di acquisire e discernere le motivazioni dell’agire religioso. Questo stile di fede insinua una falsa idea di Dio, quando viene identificato non come un padre, ma come un padrone che vieta, esige, non è mai soddisfatto e promette ritorsioni. Ne esce una religione dei no, del tu devi/non devi, che tende a rendere i credenti schiavi e non liberi. Gesù chiede di purificare questo modo di intendere Dio e la religione, per dare la possibilità all’uomo di aprirsi ad uno stile di fede consapevole e responsabile. Gesù scardina ogni forma di legalismo.

Papa Francesco ha detto: “In mezzo alla fitta selva di precetti e prescrizioni – ai legalismi di ieri e di oggi - Gesù opera uno squarcio che permette di scorgere due volti: il volto del Padre e quello del fratello. Non ci consegna due formule o due precetti; ci consegna due volti, anzi un solo volto, quello di Dio che si riflette in tanti volti, perché nel volto di ogni fratello, specialmente il più piccolo, fragile, indifeso e bisognoso, è presente l’immagine stessa di Dio”.

Non trascuriamo poi le parole: “come te stesso”: Accogliendo l’amore di Dio scopro che il senso e la vocazione della mia vita è ricambiare questo amore. È proprio perché mi sento amato che posso amare a mia volta il prossimo. Lo posso amare come me stesso, cioè così come io mi sento amato, riconoscendo quello che Dio fa per me.

Al termine del suo dialogo con il fariseo Gesù afferma: “Da questi due comandamenti dipendono tutta la Legge e i Profeti.” Solo l’amore che include Dio e il prossimo riassume tutta la Legge e i Profeti.

Nel Mondo Con Lo Sguardo Rivolto a Dio

Mt. 22,15-21

Dopo la serie di invettive con le quali Gesù ha accusato i capi spirituali del popolo di essere ladri e assassini perché si sono impadroniti del popolo, vigna del Signore, usando la violenza verso i suoi inviati, c’è ora il contrattacco da parte di questi capi, che però hanno un problema. Gesù è seguito da tanta folla allora c’è bisogno di screditarlo di fronte alla gente. Tenteranno di farlo, tendendogli delle trappole.

Tutto parte dal tributo che le provincie conquistate pagavano all’imperatore romano.
- Cos’era il tributo a Cesare?
Da quando era stato nominato per la Giudea un procuratore romano c’era una tassazione per tutti, uomini e donne, dai 12 ai 65 anni; proprio a causa del pagamento di questo tributo c’erano state tante sollevazioni e tante posizioni diverse.
Gli zeloti, rivoluzionari, si facevano un dovere religioso di non sottomettersi a questo pagamento, mentre gli erodiani, che appoggiavano le forze di occupazione, erano favorevoli ad esso e i farisei (esperti di diritto), pur opponendosi, vi si adattavano perché venisse loro garantita la libertà religiosa.

La domanda posta a Gesù è quindi insidiosa. “Maestro sappiamo che tu sei veritiero e insegni la via di Dio secondo verità, non hai soggezione di alcuno, perché non guardi in faccia a nessuno.” Il linguaggio è adulatorio e ipocrita tuttavia ciò che dicono corrisponde al vero, davvero Gesù insegna secondo verità e non guarda la propria convenienza ma al bene dell’uomo. Al contrario di essi che invece, sono stati accusati da Gesù di fare tutto solo per essere ammirati.

Ed ecco l’insidia, “Dunque di’ a noi il tuo parere”, il termine è all’imperativo non è una richiesta, ma un’imposizione, quasi una sfida. “E’ lecito o no pagare il tributo a Cesare?”
Vogliono spingere Gesù a schierarsi; non dimentichiamo che siamo dentro l’area del tempio, in qualsiasi modo Gesù risponde si danneggia: perché se dice “Sì è lecito pagare il tributo a Cesare” va contro la legge per la quale l’unico Signore del popolo, l’unico riconosciuto come tale, è Dio; se al contrario dice “No non paghiamo” ecco che è un sovvertitore, un ribelle. Siamo all’interno del tempio, ci sono le guardia e Gesù può essere subito arrestato.

Gesù risponde tendendo a sua volta una trappola a chi lo insidia, dice: “Mostratemi la moneta del tributo”. Ed essi gli presentarono un denaro. Nel tempio però era severamente proibito portare monete romane, perché nel libro del Deuteronomio, nei comandamenti, si proibisce di fare qualunque figura umana.
Pertanto nel luogo più santo di Gerusalemme, il tempio, era assolutamente proibito portare monete che avessero delle effigi umane, per le offerte, all’ingresso del tempio c’erano dei cambiavalute che cambiavano le monete romane con le monete permesse nel tempio.
Questi farisei, che sono ossessionati dall’idea del puro e dell’impuro, che sono meticolosi, sono scrupolosi, quando si tratta di denaro non vanno tanto per il sottile.
Nel tempio, nel luogo più sacro, essi portano una moneta che, agli occhi della religione, è considerata impura.
. Egli domandò loro: “Quest’immagine e l’iscrizione, di chi sono?” Gli risposero: “Di Cesare”. Infatti il denaro romano portava da una parte l’immagine di Tiberio con la scritta “Cesare figlio del divino Augusto, pontefice massimo”, e nel suo rovescio, c’era la madre dell’imperatore rappresentata come la dea della pace. Comunque due figure umane divinizzate.
Gesù non risponde se sia lecito o no pagare, lui usa un altro verbo che è “rendete”, cioè “restituite”. “Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio”.

La risposta di Gesù è illuminata e illuminante perché sottolinea la trascendenza del Regno nei confronti delle realtà temporali.

- Cos’è che si deve restituire a Dio e che è di Dio?
- In primo luogo: noi siamo di Dio, fatti a sua immagine. “Egli ci ha fatti, a Lui apparteniamo” recita il salmo. Tutta la nostra vita è di Dio che ci ha creato. Il catechismo di San Pio X recitava: Per quale fine Dio ci ha creati? Dio ci ha creati per conoscerlo, amarlo e servirlo in questa vita e poi goderlo nell’altra, in Paradiso.
All’inizio del Compendio del Catechismo della Chiesa Cattolica curato da Papa Benedetto XVI si legge: “ Qual è il disegno di Dio per l’uomo? –R- Dio, infinitamente perfetto e beato in se stesso, per un disegno di pura bontà ha liberamente creato l’uomo per renderlo partecipe della sua vita beata…”
Sant’Agostino proclama: “ Tu sei grande Signore e degno di ogni lode… ci hai fatti per Te e il nostro cuore non ha pace finché non riposa in Te…”
-Inoltre: tutto il creato e le creature esistenti sono di Dio, a noi affidate per goderne e prendercene cura. Purtroppo constatiamo tutti quanto noi ne abusiamo abbondantemente e ci comportiamo come se tutto e tutti ci appartenessero, invece di prenderci cura delle cose e delle persone a noi affidate, le sfruttiamo badando solo al nostro profitto.

Il dovere verso Cesare avallato da Gesù, non si colloca però sullo stesso piano e non ha lo stesso valore assoluto del dovere verso Dio. Non sono due realtà uguali e simmetriche. Dio è l’Unico che si deve adorare con amore filiale. In altre parole Dio e la sua regalità non entrano in concorrenza con il potere dello Stato perché stanno ad un altro livello.
Si stimano le cose della terra per quel che valgono e si adempiono i propri doveri con competenza ed onestà, senza però dimenticare che l’essenziale è altrove, nella fedeltà al Padre celeste. Si tratta stabilire una giusta gerarchia dei doveri: c’è la vita politica e sociale e al di sopra, la vita religiosa, con il primato riconosciuto a Dio.
Il credente è chiamato a svolgere con responsabilità e competenza e onestà i propri compiti nel mondo per contribuire al bene comune ed essere lievito nella società.

La fede cristiana non può essere indifferente di fronte allo Stato, cioè non può rinunciare a far valere nella vita pubblica il piano della morale e dei Comandamenti divini della fede.
La Chiesa è al servizio di un Regno che non è di questo mondo, ma in esso ha un ruolo di fermento spirituale per indirizzare lo sguardo degli uomini all’al di là a cui deve essere sempre rivolto.
Questa pagina evangelica rivendica lo spazio di libertà come spazio vitale per il cristiano, sia contro i totalitarismi politici che contro il potere teocratico.

Il Regno di Dio è al centro e al di sopra di tutto ad esso, nel perseguimento del bene comune, vanno orientate tutte le attività politiche e sociali.
Ai fedeli laici la Chiesa ricorda il dovere della coerenza con la visione cristiana della vita, perché Dio è al di sopra di tutto.

Nella Parola e nell'Eucaristia si incontra il Risorto

III DOMENICA DI PASQUA (Lc 24, 13-35)
È il giorno di Pasqua, il giorno della resurrezione. Gli avvenimenti a Gerusalemme si sono svolti vorticosamente e crudelmente: il processo, l’agonia, la morte, la sepoltura di Gesù.

Due dei discepoli, che hanno assistito a tutto ciò, vanno da Gerusalemme verso un villaggio di nome Emmaus, dove quasi sicuramente era la loro casa. Sono delusi, pieni di tristezza, sentimento che traspare anche sui loro volti , parlano degli eventi di cui erano stati testimoni. Allontanarsi da Gerusalemme è per loro come lasciarsi alle spalle la loro fede in Gesù. Ma su quel cammino ecco apparire un altro viandante, in realtà il Risorto, che si accosta ai due. Inserendosi nel cammino dei due discepoli, Gesù prende in mano la situazione e il cammino dell’allontanamento diventa il cammino dell’incontro.

Gesù si avvicina con il desiderio di comprendere cosa i due hanno nel cuore, di accompagnarli, di trasformarli. Chiede di che cosa stiano parlando e ascolta quello che è successo, ciò che dicono di lui e le loro speranze deluse. Essi coltivavano la visione di un Messia vittorioso, un liberatore del popolo dal giogo romano e si sono ritrovati con il fallimento di un Messia crocifisso.
È facile immedesimarsi in questi discepoli: chi non conosce l’amarezza di una speranza frustrata, di una aspettativa irrealizzata, di un sogno infranto? Di uno solo sappiamo il nome, Cleopa, e questo quasi a dirci che l’altro potremmo essere noi, con il nostro nome, la nostra vita.

Alcune donne hanno trovato il sepolcro vuoto e hanno detto di aver avuto una visione di angeli che affermavano che Gesù è vivo. Anche alcuni discepoli hanno constatato che il sepolcro era vuoto. Le parole delle donne e il sepolcro vuoto non bastano. Il racconto dei due discepoli si arresta su una constatazione negativa ai loro occhi ben più importante del sepolcro vuoto: «Ma Lui non l’hanno visto».

Gesù li chiama “stolti e lenti di cuore”. È un rimprovero che tocca la mente e il cuore. Il loro racconto mostra infatti che sono incapaci di comprendere l’agire divino, superficiali nel valutare la storia di Gesù. E mostra che il loro cuore è incapace di aprirsi alla novità e alla sorpresa. Gesù li rimette davanti alla Parola di Dio; comincia a spiegarla partendo proprio dal punto cruciale, quello che scandalizza, cioè la passione e la croce:”non bisognava che il Cristo patisse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?” Gesù apre i discepoli alla comprensione di tutto ciò che nella Scrittura si riferiva a Lui, mostra che nella Legge e nei Profeti già era adombrata quella che sarebbe stata la via del Cristo, e che tutto quello che è avvenuto era nel progetto del Padre.

“Bisognava” significa che la passione è parte essenziale del disegno divino, non la sua rottura o la sua smentita. Ma significa anche che la passione è stata vissuta da Gesù come un’obbedienza. “Bisognava” dice al tempo stesso il disegno di Dio e l’obbedienza di Gesù.
Dio non solo ha ridato la vita al Figlio, ma lo ha esaltato e lo ha fatto sedere accanto a sé nella gloria.

Proprio Lui, Gesù Cristo Figlio di Dio, è la chiave di interpretazione delle Scritture; senza di Lui restano velate. La spiegazione delle Scritture ha colmato di ardore il loro cuore, ma non li ha portati a riconoscere Gesù. I due non lo riconoscono non perché Egli ha assunto un volto sconosciuto per apparire in incognito, ma perché “i loro occhi non avevano la forza di riconoscerlo”. Occorre un modo nuovo di guardare ciò che già prima si è visto. Il Risorto rimane necessariamente uno straniero se non si entra, attraverso la comprensione delle Scritture, nella verità del Crocifisso.

Gesù continuava ad essere quel viandante che camminava con loro, però qualcosa è cambiato : non lo sentono più come un viandante sconosciuto ma come un amico e non vogliono che li lasci; lo invitano a rimanere con loro: “ Resta con noi, perché si fa sera e il giorno è ormai al tramonto.” Sembrano parole di cortesia, ma in realtà rivelano una preghiera che parte da dentro, una dichiarazione di fede e di affidamento. Anche se non sanno ancora chi sia, i due discepoli sentono il bisogno di Gesù. Resta con noi perché la tua Parola è luce che brilla nelle tenebre, fuoco che riscalda. E così il viandante accetta l’invito: questo è il desiderio del Risorto, essere invitato ad entrare nella casa, ad entrare nella vita dei suoi per rimanere con loro.

Una volta entrato, però, sembra lui l’invitante. Appena si siede, accade il fatto più importante. Gesù compie quattro gesti - prende il pane, benedice, lo spezza e lo distribuisce -, che riportano indietro alla celebrazione eucaristica, alla vita terrena di Gesù, una vita offerta in dono come un pane spezzato, alla Croce che di quella vita è il compimento. E portano anche in avanti, alla vita della Chiesa, al tempo in cui i cristiani continueranno a «spezzare il pane». La «fractio panis» è dunque un gesto, in un certo senso riassuntivo, nel quale si concentrano, sovrapponendosi, le tre tappe dell’esistenza di Gesù: il Gesù terreno, il Risorto e il Signore ora presente nella comunità.

A questo gesto “si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero”: ma subito Gesù scompare dalla loro vista. Gesù si rende invisibile, ma non interrompe la sua presenza; non abbandona la compagnia dei due, ma rimane con loro nella sua modalità di Risorto. Si può dire che con la sua “apparizione”, Gesù prepara la sua “sparizione”. Educa i discepoli a riconoscerlo, con gli occhi della fede, nell’Eucaristia che è il modo nuovo di farsi realmente presente ai suoi, “fino alla fine del mondo”.

Gli occhi dei discepoli prima della frazione del pane non riuscivano a “vedere” Gesù che pure era presente, mentre lo riconoscono proprio ora che lui sparisce dalla loro vista. «Non ardeva forse in noi il nostro cuore mentre egli conversava con noi lungo la via, quando ci spiegava le Scritture?». Solo ora - dopo il riconoscimento del Risorto - i due discepoli comprendono ciò che già prima avvertivano, ma confusamente, come una traccia non ancora leggibile. Il Risorto non soltanto illumina la strada in avanti, ma anche all’indietro. Non solo dischiude all’uomo un futuro, ma gli mostra anche il senso di ciò che ha già vissuto e vive.

A questo punto, i discepoli non possono indugiare neanche un minuto, non sono intimoriti dal fatto che “è sera”. Si rimettono in cammino su quella stessa strada che li aveva visti sconfitti, si rimettono in viaggio verso Gerusalemme, “dove trovarono riuniti gli Undici e gli altri che erano con loro”. Ancor prima che essi raccontino la loro esperienza, ascoltano la professione di fede ecclesiale: “Davvero il Signore è risorto ed è apparso a Simone!”. È all’interno di questa ed in sintonia con questa confessione ecclesiale, in cui si nota la figura di Pietro come simbolo di unità e comunione, che i due discepoli possono poi raccontare di “come l’avevano riconosciuto nello spezzare il pane”.

Quali messaggi possiamo individuare?

- I due viandanti ci insegnano che il Signore ci raggiunge nelle strade che stiamo percorrendo. È Lui che condivide il cammino, la strada, la vita, la storia dell’uomo. “Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Mt 28,20). Gesù ci conosce, ci ama e ci cerca.

- La tristezza dei due discepoli all’inizio del racconto è quella di chi teme che la morte l’abbia vinta sulla vita; l’entusiasmo con cui ripartono è quello di chi sa che il Risorto ha vinto e vincerà la morte.
- È significativo che i due non riconoscano Gesù, pur avendolo seguito durante i suoi giorni terreni. Per riconoscere il Risorto non basta la ragione o l’esperienza fisica; è necessario un altro canale di conoscenza, quello della fede.

- C’è l’aspetto della forza trasformante dell’incontro con il Risorto. Nei discepoli avviene un profondo cambiamento interiore, un passaggio dalla desolazione alla consolazione, dalla tristezza alla gioia, dalla chiusura in se stessi all’accoglienza di un Evento d’amore inconcepibile. È bello notare come questa trasformazione si rifletta nella stessa corporeità: il cuore lento diventa ardente, la mente stolta si illumina, i piedi che hanno preso la direzione sbagliata ritornano su quella giusta, gli orecchi sordi ascoltano, gli occhi velati si aprono, la bocca che parlava di morte ora annuncia il Vivente. L’incontro con Cristo cambia il nostro cuore, si diventa sapienti secondo Dio e non secondo il mondo; cambia anche la nostra direzione di vita.

- C’è uno stretto legame, ed anche un preciso ordine, fra il momento della Scrittura aperta e quello del Pane spezzato. Per prima cosa Gesù apre il senso delle Scritture per i discepoli, i quali accolgono la sua Parola ed allora il cuore riprende vita. La Parola, però, non raggiunge il suo pieno compimento se non sulla mensa del Pane. È solo lì che si aprono gli occhi sulla realtà tutta intera, sulla presenza reale del Signore che rimane con i suoi. Ma, viceversa, è anche solo di fronte al Pane spezzato che i discepoli ritornano più consapevolmente alla memoria della Parola ascoltata; Parola ed Eucaristia sono così unite da essere incomprensibili l’una senza l’altra.

C’è un rimando, non casuale, alla celebrazione eucaristica, mensa della Parola e del Pane. L’evangelista Luca, strutturando così questo racconto, vuol dirci che la celebrazione eucaristica è il contesto nel quale anche noi oggi incontriamo il Risorto in pienezza, nella fede sperimentando che Gesù rimane con noi, non come figura del passato, ma come colui che è vivente!

Gesù, il Crocifisso, è Risorto.

Mt 28,1-10
Siamo nell’ultimo capitolo di Matteo. Ormai si è consumata l’offerta di Cristo al Padre ed inizia il nuovo corso della storia, segnato dalla vittoria definitiva sulla morte.

Il racconto della passione e morte di Gesù si è concluso con la sua sepoltura a opera di Giuseppe di Arimatea. Subito dopo però Matteo ci ricorda la sollecitudine dei sommi sacerdoti che chiedono a Pilato di mettere delle guardie al sepolcro per evitare che i discepoli di Gesù lo portino via. Le guardie poi sigilleranno il sepolcro.

Già ai piedi della croce si sono viste le prime avvisaglie di novità: il velo del tempio squarciato, morti che risuscitano, pagani che credono, un nuovo popolo che si raduna, donne che tengono il collegamento con il maestro rimanendo ai piedi della croce, dopo che tutti i discepoli sono fuggiti. Il racconto pasquale esplicita la nuova storia che dal calvario ha ormai preso le mosse. Il racconto salta ora al giorno dopo, il primo della settimana, all'alba.

Il brano si apre presentando il nuovo giorno; è ormai “il primo giorno della settimana”, il sabato è passato con tutte le tradizioni ad esso collegate, inizia un tempo nuovo nella storia della salvezza. Nella nuova fase che si apre, protagoniste sono due donne, Maria di Magdala e l’altra Maria.
Maria Maddalena è molto conosciuta. L'altra Maria è probabilmente la madre di Giacomo e di Giuseppe, di cui si parla in Mt 27,56. Queste due donne al momento della sepoltura di Gesù si trovavano vicino al sepolcro (Mt 27,61). Il giorno di sabato erano rimaste in città, osservando la festa solenne di Pasqua, ma il giorno dopo tornano al sepolcro di Gesù. Esse vanno al sepolcro per “visitare la tomba”.

Qui Matteo si scosta da Marco e Luca che sottolineano l’unzione della salma. Matteo invece riporta l’usanza giudaica di visitare fino al terzo giorno la tomba di una persona amata, per verificare se per caso fosse ancora viva. Così egli prepara l’evento straordinario a cui le donne assisteranno.

Arrivate al sepolcro, le donne vedono una teofania, cioè una manifestazione di Dio. Questa è descritta attraverso elementi di genere apocalittico: il terremoto, l’angelo, il suo aspetto come folgore e il suo vestito come neve. “L’angelo del Signore” qui appare in una cornice di grande sconvolgimento. Egli, aprendo la tomba e sedendosi poi sulla pietra, dichiara ormai definitiva la vittoria sulla morte.

Mentre in Marco le donne si chiedono chi avrebbe spostato per loro la pietra e poi la trovano già spostata, qui il fatto avviene in presa diretta. Anche qui come nel racconto della morte di Gesù vi è un terremoto: la resurrezione di Gesù è di natura apocalittica, come la sua morte, e i due avvenimenti si illuminano a vicenda e rivelano l’azione di Dio.

La rappresentazione visiva della vittoria di Dio sulla morte, suscita diversa reazione nelle guardie e nelle donne. Le guardie, per la paura, sono sconvolte e cadono a terra come morte, non comprendono nulla e restano fuori dal mistero che si rivela, mostrando di essere perfettamente inutili. Le donne, anch’esse piene di paura, sono invece aperte al dialogo e ricevono la comunicazione del significato di quanto è avvenuto.

L’angelo, con tutta la sua autorità, proclama il significato della tomba aperta e vuota: “Gesù, il crocifisso, non è qui. E’ Risorto!” e invita le donne a non temere. Dice esplicitamente "non temete, voi". Questo voi è rivolto alle donne, ma anche a noi.

L'annuncio pasquale è simile a quello di Marco:” voi cercate il crocifisso”. Gesù rimane il crocifisso anche da risorto. Non c’è Resurrezione senza la Passione e Morte. Non c’è Pasqua senza venerdì santo nella concretezza di un Dio che si incarna e si fa uomo!

L’angelo mostra inoltre il sepolcro vuoto, non è la prova della risurrezione, ma un segno necessario…il cui significato è spiegato dall’angelo: “ E’ Risorto”. L’annuncio pasquale fa passare i credenti dalla paura alla fede gioiosa (con timore e gioia grande). “Non abbiate paura voi”. La gioia dei cristiani scaturisce dal sapere che il Signore è vivo e anch’essi parteciperanno della sua resurrezione.
La conseguenza che scaturisce da questo fatto è la forza dirompente dell’annuncio, dell’evangelizzazione. “ Presto, andate a dire ai discepoli che è risorto e vi precede in Galilea”. E’ in questa dimensione fondamentale della vita della Chiesa che si fa esperienza del Risorto e che gli uomini di ogni tempo e luogo hanno la possibilità di incontrarlo.

A questo punto Marco parlava della paura delle donne che se ne tornarono indietro senza dire niente a nessuno. In Matteo invece, mentre le donne vanno a portare l’annunzio ai discepoli, Gesù in persona viene loro incontro e conferma con le sue parole che l’evangelizzazione è l’esperienza qualificante della vita comunità nata dalla morte e risurrezione, la Chiesa.

In Galilea: dove tutto ha avuto inizio, ad indicare un nuovo inizio. Ma anche il mandato ad “ annunciare il vangelo e a battezzare tutte le genti”…

Dopo il racconto della resurrezione Matteo narrerà l'incontro di Gesù con i suoi discepoli in Galilea e il loro mandato a battezzare tutte le genti. In poche pennellate il vangelo di Matteo si chiude con la resurrezione di Gesù e l'apertura, l'annuncio del vangelo a tutto il mondo.

“Con il Crocifisso resuscitato riparte la causa del regno di Dio. Ciò che in modo promettente era iniziato durante la vita pubblica di Gesù e poi sembrava annullato dalla morte in croce, ora viene ripreso con nuova e potente efficacia.
Dio non finisce di stupire per il suo amore: restituisce agli uomini, come Salvatore, il proprio figlio, che essi hanno rifiutato e ucciso. Mediante il Crocefisso risorto, Egli si fa definitivamente vicino ai peccatori, ai malati, ai falliti della storia, ai morti inghiottiti dalla terra. Non c’è solitudine umana che non vada a raggiungere.” (CdA “La Verità Vi Farà Liberi” 262)

Con la risurrezione del Signore la comunità dei credenti nata ai piedi della croce, viene riconfermata e consolidata. Essa non deve più temere perché la morte è stata sconfitta ed i suoi componenti sono chiamati a condividere la stessa sorte del maestro. La forza della Resurrezione del Signore diventa gioia incontenibile, come incontenibile deve essere il desiderio di parteciparla a tutti: Si diffonda per contagio e ci aiuti a vivere da Risorti!

Osanna al Figlio di Davide.

DOMENICA DELLE PALME ANNO A Mt 21, 1-11
Gesù, che ha sempre rifiutato le sollecitazioni di coloro che volevano farlo re, ora acconsente, ma lascia intuire dalle parole dell’evangelista Matteo il senso che egli dà al suo trionfo di un giorno. Il brano ci mostra che la sua regalità non ha niente a che fare con quella dei potenti.

Il racconto si svolge su due toni, quello gioioso dell’ingresso trionfale in Gerusalemme, fra gli onori della folla, e quello drammatico, che si scorge all’orizzonte, della prossima passione e morte.

Già nelle vicinanze della città Gesù con autorevolezza incarica due discepoli di andare nel villaggio di Betfage, dove avrebbero trovato un’asina legata e con essa un puledro: “Slegateli e conduceteli da me. E se qualcuno vi dirà qualcosa, rispondete: Il Signore ne ha bisogno"

Gli studiosi danno un significato allegorico all’espressione “tenere legato l’asino” significherebbe rifiutare la proposta di Gesù, mentre “slegare l’asino” avrebbe il significato di lasciarsi coinvolgere nel servizio quindi l’ordine di Gesù è una chiamata alla sua sequela per la causa del Regno. Alla luce di questo, acquistano un significato più profondo le parole “Il Signore ne ha bisogno” , ci dicono che Gesù, autorivelatosi come Signore, ha bisogno di noi, che ci mettiamo al suo servizio con umiltà, dedizione, nella povertà e semplicità di ciò che siamo ma pronti a vivere come Lui un amore totale.

Gesù non entra in Gerusalemme a piedi come un qualsiasi pellegrino, ma il suo è un ingresso importante, riprende le cerimonie tipiche dell’investitura di un re, ma la sua è una regalità capovolta non del dominio, ma del servizio. Egli entra” cavalcando un’asina e un puledro , figlio di una bestia da soma”, secondo la profezia di Zaccaria; non cavalca un elegante destriero, è un re mite e così accetta di assumere e manifestare pubblicamente la sua regalità.

I mantelli stesi sull’asina e il puledro sono significativi di una chiamata, la chiamata alla vita e al servizio da parte di Gesù, Signore della vita. Anche la folla numerosissima stende i propri mantelli sulla strada ad indicare il riconoscimento della regalità di Gesù mentre agitavano rami frondosi gridando “Osanna al Figlio di Davide! Benedetto colui che viene nel nome del Signore!...”

E’ questo l’ultimo momento di gloria… già nell’ultima frase della pericope si avvertono i primi scricchiolii. “ Mentre egli entrava in Gerusalemme, tutta la città fu presa da agitazione e diceva: "Chi è costui?" e la folla rispondeva: "Questi è il profeta Gesù, da Nazaret di Galilea" Quasi infastidita dal clamore, la stessa folla che lo ha acclamato chiede chi è e risponde definendolo semplicemente un profeta che viene da Nazaret, uno qualsiasi, non più “il Figlio di Davide”, non più “il Messia”, ma un semplice sconosciuto profeta; da questo a lasciarsi sobillare e chiedere a gran voce la crocifissione di Gesù il passo sarà breve.

Gesù Signore della Vita

V Domenica di Quaresima Gv. 11,1-45

La liturgia quaresimale di quest’anno A continua a proporre passi del Vangelo di Giovanni nel quale troviamo narrati sette miracoli di Gesù. La scelta dei sette segni mette in evidenza l’intenzione dell’autore. Sette è il numero che indica la perfezione e la compiutezza. Questi sette miracoli-segno sono sufficienti per Giovanni, a comunicare la pienezza di Grazia e di Verità che la Parola incarnata ha portato agli uomini. Questo è l’ultimo miracolo narrato: Lazzaro richiamato in vita da Gesù.

Il racconto inizia con la presentazione dei personaggi: Gesù, Lazzaro, Marta e Maria e la località nella quale si svolge la vicenda: Betania. Lazzaro è ammalato e le sorelle avvisano Gesù: “Signore ecco il tuo amico è malato”. Qui Lazzaro è chiamato l’amico, colui che è amato da Gesù: Sicuramente egli rappresenta tutti quelli che Gesù ama: i cristiani, suoi amici.

Subito dopo Giovanni spiega il miracolo-segno che Gesù sta per compiere: “Questa malattia non è per la morte ma per la gloria di Dio, perché per essa il Figlio venga glorificato”. La malattia di Lazzaro non finisce con la morte, Gesù ridà al suo amico amato la vita fisica, segno di quella eterna.
La vita ridata a Lazzaro è il motivo immediato che fa precipitare la vicenda e che porterà Gesù alla morte, come primo atto della sua glorificazione, nella quale si manifesta la gloria di Dio. I vv 7-16 sottolineano infatti l’andare a morire di Gesù: “I giudei cercavano di lapidarti e tu ci vai di nuovo?...” allora Tommaso disse: “Andiamo anche noi a morire con Lui”. Notiamo l’evidente intersecarsi di tre temi: la morte di Lazzaro, quella di Gesù, e quella dei discepoli.

Tutto il movimento descritto è finalizzato alla fede dei discepoli; “perché voi crediate”.

Nei vv 17-33 è presentato l’arrivo di Gesù a Betania e il suo incontro con Marta e Maria, sorelle di Lazzaro. Il dialogo con le due donne permette a Gesù di far conoscere che lui non è un profeta come tutti gli altri, Egli può dare la vita, quella vera, a condizione che si creda in lui.

Infine i vv 33-40 evidenziano il dolore di Gesù per l’amico che amava: “si commosse profondamente e scoppiò in pianto” e l’obiezione di Marta circa l’opportunità di togliere la pietra, perché Lazzaro era ormai morto da quattro giorni. Gesù risponde ancora una volta chiedendo di aver fede: “Se credi vedrai La gloria di Dio”. La fede di Marta non solo permetterà di vedere manifestata la grandezza di Dio nel miracolo che sta per compiersi, ma è anche condizione per contemplare direttamente Dio nella resurrezione finale.

Il brano si chiude con la breve narrazione del miracolo. E’ Dio Padre che ridà la vita a Lazzaro per mezzo di Gesù. Il “grido a gran voce” di Gesù può essere collegato col grido del Calvario, attraverso il quale tutti i discepoli, animati dalla fede, vengono tirati fuori dal buio del sepolcro e liberati dai legami della morte.

Dio Padre, attraverso l’azione di Gesù, ridà la vita fisica a Lazzaro. Il miracolo è un segno che richiama la vita eterna donata a tutti i credenti. Chi crede in Gesù e si fida di lui parteciperà della redenzione da Lui ottenuta per tutti i suoi amici, attraverso la sua morte e resurrezione. Questo è un tema nodale dell’itinerario cristiano.

Col segno della resurrezione di Lazzaro Gesù solidarizza con l’umanità intera, che si trova sempre di fronte al dramma inspiegabile della morte. Porta le due sorelle e i presenti a fare un salto di qualità nella loro fede, la quale sempre più si delinea come un rapporto interpersonale con Gesù, che nemmeno la morte corporale può spezzare.

La potenza di Dio Padre, che opera per mezzo di Gesù, mediante la sua resurrezione, porterà la vittoria sulla morte per tutti. La fede nella resurrezione conduce i credenti a non essere più sotto il dominio della carne, ma dello Spirito di Dio; lo Spirito infatti, che ha resuscitato Cristo dai morti, darà la vita anche ai nostri corpi mortali.

Gesù guarisce la nostra cecità

Ricevo da Chiara il testo della sua catechesi e lo inserisco.

IV DOMENICA DI QUARESIMA – ANNO A Dal Vangelo secondo Giovanni (Gv 9,1-41)

vv. 1-7 - Gesù si trova nelle vicinanze del tempio di Gerusalemme e vede un uomo cieco dalla nascita di cui non viene detto il nome. Non avviene che il malato invochi Gesù e gli chieda la guarigione, ma è Gesù che, passando, vede un uomo bisognoso di salvezza. Gesù è attento alle situazioni di indigenza e necessità.

Anche i discepoli vedono questo cieco, ma con uno sguardo diverso. Conoscono la dottrina tradizionale che lega in modo automatico peccato e malattia (vista come punizione per un peccato compiuto dai genitori, oppure si pensava che un bambino già nel grembo della madre potesse peccare). Essi non sanno vedere innanzitutto la sofferenza di un uomo, ma cercano di spiarne il peccato. Gesù, che non vede il peccato ma piuttosto la sofferenza, dichiara che quella malattia è l’occasione per il manifestarsi di Dio che interviene e salva. Il suo è uno sguardo diametralmente opposto a quello colpevolizzante dei discepoli. Gesù non propone alcuna spiegazione riguardo a quella cecità. Lui vede invece una persona da guarire.
Mediante l’uso del plurale “noi” (v.4), Gesù intende associare i discepoli alla manifestazione dell’opera salvifica di Dio. Dopo che Gesù sarà tornato al Padre, infatti, essi dovranno continuare la sua opera. Gesù precisa che deve agire “finché è giorno”, cioè per quanto dura il suo itinerario terreno, fino alla notte, cioè alla sua morte. Questa risposta rievoca l’affermazione: “Il Padre mio opera sempre e anch’io opero” (5,17): viene così giustificato anticipatamente il suo operare in giorno di sabato. Gesù inoltre si rivela, ancora una volta, come la Luce del mondo ( 3,19-21; 8,12): dichiarazione che anticipa il senso del miracolo. Le tenebre in cui si trova il cieco nato non provengono dal peccato, quindi non sono segno della condizione peccatrice dell’umanità. Le sue tenebre sono piuttosto figura della situazione in cui si trova ogni uomo prima di essere illuminato dalla rivelazione di Cristo.

Il cieco non chiede la guarigione, è un cieco nato, non può domandare ciò che ignora. Così l’umanità avvolta nelle tenebre non ha invocato Dio. È stato Lui stesso a venirle incontro. Gesù fa un gesto di cura, terapeutico: impasta della polvere con la sua saliva e la spalma sugli occhi del cieco. Il gesto dell’impastare il fango ricorda quello della creazione dell’uomo da parte di Dio (Gen 2,7).
Questo ricorrere al fango di Gesù sarebbe dunque il perfetto compimento della creazione primitiva, in vista della nascita dell’uomo perfetto, cioè il credente. Qual è il presupposto di questa nuova creazione? La fiducia “cieca” dell’uomo che obbedisce alla parola di Cristo. Il gesto di Gesù non è quindi un gesto di magia, ma un gesto umanissimo: l’uomo non vedente si sente toccato da Gesù, sente le sue dita e il fango sui propri occhi, sente di poter mettere fiducia in chi lo ha “visto” e lo ha riconosciuto come una persona nel bisogno. E non appena Gesù gli dice di andarsi a lavare nella piscina di Siloe, egli obbedisce, va, poi torna capace di vedere.
E perché mandarlo proprio alla piscina di Siloe? È evidente il significato simbolico di questo luogo: è la piscina dell’ “Inviato”, ma l’inviato è Gesù, è lui che il Padre ha mandato nel mondo non «per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui» (Gv 3,17). Il cieco crede alle parole di Gesù come parole potenti, efficaci, e così trova quella vista che mai aveva avuto. Il miracolo è narrato da Giovanni in appena due versetti, perché l’evangelista vuole attirare l’attenzione non sul miracolo in sé, ma su quello che succede dopo, una polemica che sembra interminabile.

vv. 8-12 - I conoscenti sono perplessi e incerti. Il cieco guarito rivendica con forza la propria identità e racconta loro ciò che l’uomo chiamato Gesù ha fatto e detto. Presi dalla curiosità, gli chiedono dove sia questo Gesù, per poterlo incontrare, ma egli non sa rispondere.

vv. 13-17 - Altri uomini, attenti alla Legge, portano il cieco dai farisei, gli osservanti esperti della Torah, affinché giudichino l’operato di Gesù. Infatti, precisa l’autore, “era un sabato”. Il sabato è giorno di riposo perché giorno di Dio. Gesù opera di sabato perché è Dio. I farisei fanno tante domande, vogliono sapere, ma non comprendono, perché la verità dei fatti non corrisponde alle loro idee. Secondo alcuni, Gesù non viene da Dio perché non rispetta il sabato, dunque è un peccatore! Il cieco frattanto compie un altro passo verso la comprensione dell’identità di colui che l’ha guarito, infatti risponde: “È un profeta”.

vv. 18-23 - Non accettando la dichiarazione dell’uomo guarito, questi uomini religiosi fanno chiamare i suoi genitori e li interrogano sulla cecità del figlio. Costoro, colti da paura, scaricano su di lui la responsabilità, poiché è in età di testimoniare validamente. Questo avveniva all'età di tredici anni e un giorno. I genitori hanno paura perché i capi religiosi minacciano di cacciarli dalla sinagoga, cioè di escluderli da quella che è sempre stata la comunità tradizionale. L’espulsione dalla sinagoga comportava parecchi rischi, era l’isolamento sociale, l’insicurezza più completa, si perdeva addirittura il diritto all’eredità. Essi tradiscono il figlio pur di non esporsi.

vv. 24-34 - Quei farisei chiamano nuovamente l’uomo guarito e cercano di convincerlo, perché loro “sanno”, hanno l’autorità di discernere che Gesù è un peccatore, dunque non può fare nulla di buono. Davvero i loro schemi non sono quelli di Dio! Guardano alla teologia e non vedono l’uomo e il miracolo… Il cieco risponde con ironia e, pur essendo un uomo del popolo, dimostra molta più sapienza di chi lo interroga. Questo colloquio porta l’uomo guarito a fare un altro passo avanti nella fede: “Gesù è da Dio”. La testimonianza però gli costa l’allontanamento dalla comunità degli osservanti fedeli alla Legge; egli viene cacciato fuori come tutti quelli che riconoscevano Gesù quale Messia (cf. v. 22). “Da’ gloria a Dio!” (v. 24): è una formula biblica per scongiurare qualcuno a dire la verità e riparare un’offesa fatta alla maestà divina.

vv. 35-38 - Saputo che quell’uomo è stato espulso dalla sinagoga, Gesù lo va a cercare, per visitare la solitudine di chi accoglie il dono della fede e viene ostacolato, giudicato, isolato, allontanato, per dargli il conforto della Sua compagnia. Trovatolo, gli pone una domanda, da cui nasce il dialogo che costituisce il vertice di questa pagina: - “Tu, credi nel Figlio dell’uomo?”. - “E chi è, Signore, perché io creda in lui?”. - “Lo hai visto”. In armonia con la simbolica del vedere, Gesù non risponde: “Sono io”, ma gli dice: “Lo hai visto”; questo verbo vedere è diverso dai precedenti, significa una vista più profonda, quella della fede.
Gesù aggiunge: “È colui che parla con te”. La visione viene così abbinata alla parola. Tutto il racconto è strutturato dal rapporto dei due elementi parlare/vedere, dei quali il principale è la parola. Infatti se il cieco non avesse ascoltato Gesù non avrebbe compiuto gli atti che ne hanno segnato la guarigione. Alla fine il miracolato riconosce chi è il suo salvatore grazie al dialogo in cui Gesù si rivela. È la Parola il dono per eccellenza, quello che permette all’uomo di passare dalle tenebre originarie alla luce divina.
- “Credo, Signore!”. E si prostrò davanti a lui. Il cieco-nato divenuto credente percepisce il Signore nella sua fede, “crede” senz’altra precisazione, ma compie un gesto con cui rende gloria a Dio in un altro senso rispetto a quello che gli avevano chiesto i farisei (9,24). Il verbo prostrarsi acquista il senso forte di adorare Dio stesso. Notiamo la crescita del cieco nella fede; egli dice l’uomo chiamato Gesù (v. 11), il profeta (v. 17), uno che viene da Dio (v. 33), Signore (il Kýrios, v. 36 e v.38): questo è il titolo più alto che i vangeli usano nei riguardi di Dio e identifica Gesù, Figlio di Dio, Salvatore, morto e risorto.

vv. 39-41 - I farisei che pensavano di vedere correttamente, sono più ciechi del cieco nato. Chiusi nella vecchia osservanza, mentono quando dicono che vedono. Per vedere occorre riconoscere di essere ciechi e bisognosi della luce. Resta cieco chi indurisce il proprio cuore di fronte a Cristo, mentre vede colui che discerne la propria cecità e si apre all’azione sanante e illuminante del Signore Gesù.

Riepilogando:
- gli occhi di Gesù cercano un uomo che nessuno cercherebbe: un mendicante cieco, un uomo che viene visto e guardato con infinito amore da Gesù.
Vediamo le cecità.

- I discepoli di Gesù dimostrano di essere ciechi spiritualmente quando non riescono a vedere Dio per quel che veramente è. Per loro Dio è uno che punisce a seconda dei peccati. - Sono ciechi anche i conoscenti di questo cieco: per loro era solo un povero malato ed ora che è guarito non sanno chi è.
- Sono ciechi anche i genitori, che dovrebbero essere i primi a rallegrarsi per la guarigione del figlio, invece per paura non vogliono compromettersi. Sono testimoni del miracolo, ma non di Gesù.

- Sono ciechi i farisei: essi fanno di tutto per non vedere quello che è evidente e finiscono per allontanare dai loro occhi proprio il segno più evidente che Dio è in mezzo a loro.

Il meno cieco di tutti sembra essere proprio questo cieco che si fida ciecamente della parola di Gesù anche se non lo conosce. Pian piano nel racconto si comprende che non solo ha acquistato la luce negli occhi, ma soprattutto quella spirituale che lo rende forte e coraggioso. Da cieco povero diventa un annunciatore di fede!

Il fatto che quel cieco non abbia un nome ci aiuta a rispecchiarci, con il nostro volto e il nostro nome, nella sua storia. Anche noi siamo stati “illuminati” da Cristo nel Battesimo e quindi siamo chiamati a comportarci come figli della luce. E comportarsi come figli della luce esige un cambiamento radicale di mentalità, una capacità di vedere la realtà, la realtà di Dio e la realtà del mondo, con gli occhi stessi di Dio.

Solo Gesù sazia la nostra sete.

III DOMENICA DI QUARESIMA GV.4,5-42
Nella terza, quarta e quinta domenica di Quaresima l'evangelista Matteo lascia il posto a Giovanni con tre brani che ci fanno tornare alle radici della nostra vita cristiana, con il simbolismo dell’acqua, della luce e della vita, ci portano al fonte battesimale da cui siamo stati rigenerati per riscoprire con rinnovato entusiasmo la nostra più profonda identità di cristiani. Il primo racconta del dialogo di Gesù con una donna Samaritana.

Gesù è in viaggio verso Gerusalemme e durante il tragitto si ferma al pozzo di una città chiamata Sicar E’ mezzogiorno, l’ora sesta, Gesù ha sete e chiede da bere ad unna donna samaritana che era andata ad attingere al pozzo. Oltre ad essere una donna, la samaritana appartiene ad una razza considerata pagana. Nell’incontro con questa persona Gesù mostra la sua iumanità esemplare libera da ogni pregiudizio di sesso, di nazionalità, di religione, di politica. Egli si rivolge alla samaritana su un piano di parità e questo desta sorpresa nella donna.
“Come mai tu, che sei giudeo…”, “ Se tu conoscessi il dono di Dio… tu ne avresti chiesto… ed Egli ti avrebbe dato acqua viva…” Gesù non accetta la provocazione di tipo etnico e cerca di indirizzare l'attenzione della donna su qualcosa di più fondamentale. “ Il dono di Dio” è Gesù stesso, la salvezza che Egli dona, la Rivelazione di sé e del Padre. La donna qui rappresenta tutta l’umanità che da sempre, anela a conoscere Dio e i suoi misteri, ma non riuscirebbe mai se Dio stesso non avesse deciso di rivelarsi, ai patriarchi, ai profeti e in modo definitivo col suo Figlio Gesù. La reazione della donna parte dall'acqua viva, per poi risalire all'identità di Gesù (chi sei? sei più grande di Giacobbe?). Sembra non aver sentito l'elemento più importante: se tu conoscessi il dono di Dio... Però quel suo "da dove" ha un significato molto importante, connesso al mistero di Gesù stesso. Inoltre noi sappiamo bene da dove egli trarrà quest'acqua viva, cioè dal suo costato trafitto (Gv 19,34).

Gesù non risponde direttamente alla donna, bensì decanta le qualità della sua acqua; è un’acqua che disseta per l’eternità, che placa la sete interiore insaziabile che il cuore ha di Dio. Se quest'acqua toglierà per sempre la sete egli è davvero più grande del patriarca Giacobbe. “Gli dice la donna: «Signore, dammi quest'acqua …” In poche battute Gesù ha provocato un inversione. Ora è la donna che ha sete e non lui. Forse la domanda della samaritana è ancora legata alla sua esperienza materiale, però al tempo stesso esprime una richiesta più profonda, un'attesa, una sete che può essere colmata solo da Gesù. Egli parla di un’acqua che vuole far scaturire dalla profondità del cuore. La donna non lo sa ma è assetata di acqua pura.
Nelle poche battute successive Gesù scandaglia il pozzo misterioso che è la coscienza e il cuore della donna e vi legge lo strazio e la colpa di una vita di disordine e di peccato: la donna zimbello di sei uomini. Alle parole di Gesù, la donna si sente letta e compresa,: “Signore, vedo che sei un profeta” , è il riconoscimento del proprio peccato che Gesù ha fatto emergere per liberarla. Gesù infatti smaschera il peccato solo per perdonare il peccatore.

Ora la donna lo interroga sulle differenze di culto … “ Viene l'ora… quando i veri adoratori adoreranno il Padre in Spirito e Verità…” Attraverso l’acqua materiale Gesù ha condotto la donna a riflettere su realtà più profonde. Il dono dell’acqua è il simbolo della rivelazione che Gesù fa di se stesso. “Spirito e Verità” sviluppano il significato di acqua viva: la Verità è la Rivelazione incarnata da Gesù, e lo Spirito è lo Spirito Santo dato da Gesù. C'è una novità che è imminente, e viene espressa con un crescendo ”viene l'ora... l'ora è adesso”, con la presenza di Gesù stesso. E' già giunta l'ora in cui adorare il Padre da veri adoratori. Qui non ci si ferma più a un popolo in particolare, ma a tutti coloro che sapranno adorare il Padre in questa nuova dimensione.
“Gli dice la donna: «So che viene il Messia, che è detto Cristo; Le dice Gesù: «Sono io, che ti parlo».
Gesù si manifesta apertamente. A nessuno mai si è rivelato in questo modo, se non alla samaritana. Dopo che Gesù le ha detto di essere il Messia lui e la donna non si parlano più. Ormai è stato detto tutto quello che c'era da dire tra di loro. La donna sente ora il bisogno di comunicare agli altri la sua stupenda scoperta. Notiamo il cambiamento avvenuto in lei: quando aveva l’anima macchiata se ne stava in disparte uscendo nell’ora più calda ad attingere l’acqua, adesso che ha incontrato Gesù, rifatta nuova dal suo perdono, diventa testimone, evangelizzatrice e tende a far comunione di amore.

I discepoli, arrivati dalla città, meravigliati che lui parli con una donna e con una samaritana, si rivolgono al Maestro partendo da una necessità concreta:” Rabbì, mangia”; con la loro sollecitudine essi danno a Gesù il pretesto per caldeggiare la sua missione, la stessa a cui essi saranno chiamati. Gesù mostra un'appassionata tensione a condurre a buon fine la causa di Dio stesso, la quale consiste nel far giungere gli uomini alla fede che dà la vita eterna.

Molti samaritani, venuti a Gesù per le parole della donna, confermano la loro fede dopo essere stati con Lui. Si arriva alla fede partendo da una testimonianza anche se è data da una persona semplice, ritenuta non autorevole; la fede della Chiesa continua a trasmettersi in questo modo. I samaritani vanno da Gesù e, ascoltandolo. comprendono che quest'uomo è il Salvatore del mondo, da questo giudeo viene la salvezza del mondo intero; sono superate tutte le barriere etniche, sociali, di lingua, razza, sesso, politica e religione. La salvezza di Gesù è davvero per tutti i popoli, anche se ha avuto inizio con l'esperienza dei giudei.

Anche a noi Cristo ha dato, come alla samaritana, l’acqua viva. Nel battesimo ci ha donato la sua vita di figlio, ci ha dato la fede, mediante il dono dello Spirito Santo. La fede, messa continuamente alla prova nel deserto rappresentato dalle difficoltà, i problemi le durezze della vita, deve però essere alimentata continuamente dalla Parola di Dio e dall’intima relazione con Cristo, Nostro Signore e testimoniata con gioia e coerenza di vita.

Solo Gesù dona la Salvezza.

II domenica di Quaresima. DAL VANGELO SECONDO MATTEO 17,1-9

Siamo nel mezzo del cammino di Gesù verso Gerusalemme, la scena è collocata geograficamente…”in disparte, su un alto monte” che la tradizione identifica con il monte Tabor. Gesù porta con sé tre dei suoi discepoli, Pietro, Giacomo e Giovanni.

Sul monte Gesù si trasfigura, il suo volto diventa luminoso e le sue vesti candide mentre Mosè ed Elia si intrattengono amabilmente con lui. A ciò assistono i discepoli e la scena deve averli incantati perché Pietro propone al Signore di fare tre tende per i personaggi celesti al fine di prolungare quell’esperienza. Pietro non ha ancora finito di parlare che “una nube luminosa li avvolse con la sua ombra”. La nube, nella tradizione biblica, è il segno della presenza di Dio. E’ il Padre che fa udire la sua voce per proclamare Gesù il suo “Figlio prediletto” amato e scelto dal Padre per rivelare e realizzare la salvezza definitiva degli uomini. Per questo raccomanda: “Ascoltatelo”.

I discepoli, incapaci di reggere davanti al mistero di Dio che si rivela, “sono presi da grande timore e cadono con la faccia a terra” Ma Gesù toccandoli li risolleva.”Non abbiate timore…” Da ora in poi i discepoli vedranno solo Gesù, non più la legge(Mosè), non più i profeti (Elia), solo Gesù potrà far giungere agli uomini la salvezza del Padre.

La conclusione del brano presenta Gesù che invita i discepoli, mentre scendono dal monte, a non parlare a nessuno di questa visione. Infatti solo dopo la Resurrezione di Gesù essi avranno piena consapevolezza dell’esperienza fatta; allora potranno parlarne in modo significativo e potranno testimoniare di questo assaggio della gloria di Dio, di questa esperienza straordinaria ad essi concessa perché non si perdano d’animo nel cammino della croce, sapendo che alla fine li attende la meravigliosa vita nella gloria del Signore.

Gesù è rivelato come il realizzatore della salvezza, l’unico che può risollevare e salvare e, mentre triboliamo per gli affanni della vita, in attesa di condividere la gloria di Dio, Gesù continua a camminare amorevolmente tra i suoi, nei sentieri del mondo.
Il volto trasfigurato e luminoso diventa segno dell’incontro e della comunione con Dio; a questa esperienza sono chiamati a partecipare i discepoli nella misura in cui ascoltano il Figlio.

Nel frattempo noi siamo invitati, come i primi discepoli, a scendere dal monte e a soffrire per il Vangelo, tribolando con Gesù per l’evangelizzazione del mondo. Dietro l’apparente sconfitta e negatività della passione e morte di Gesù brilla la gloria della Resurrezione e si attua l’amore meraviglioso e infinito di Dio per noi. Per questo camminiamo gioiosi e fiduciosi alla sequela di Gesù, il solo che può donare la salvezza del Padre.

Con la Forza della Parola di Dio.

I DOMENICA DI QUARESIMA – Mt 4,1-11
La liturgia della prima domenica di quaresima ci riporta all’inizio del vangelo di Matteo: nel capitolo 3 Giovanni Battista ha battezzato Gesù nel Giordano, dalla voce del Padre Gesù è stato investito della sua missione, è pronto, è inviato dal Padre.

Dopo le parole del Padre: “Questi è il Figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento”, lo Spirito conduce Gesù nel deserto per essere tentato dal diavolo. Lo Spirito spinge Gesù. E’ sempre lo Spirito che guida le azioni di Gesù. E’ l’energia creatrice di Gesù e lo sarà della Chiesa.
Il diavolo è il tentatore, il calunniatore, prova, saggia, testa la saldezza dell’animo di Gesù.
I 40 giorni e notti in cui Gesù rimase in preghiera fanno riferimento ai 40 anni nel deserto del popolo di Israele, alla ricerca della terra promessa dove fu sottoposto a diverse prove e difficoltà per saggiarne la fede.

Dopo questo lungo digiuno Gesù ebbe fame: testimonianza di profonda umanità. Cristo condivide l’esperienza umana fino in fondo.
“ Se tu sei il Figlio di Dio…”: il diavolo insinua il dubbio, cerca di metterlo in difficoltà, lo provoca con tutte le tentazioni che mettono continuamente a rischio la fedeltà umana.

1° tentazione: pietre che diventano pane: è la risposta alla “fame”, bisogno di autoaffermazione, di autodeterminazione, autonomia, scelta indipendente. E’ la tentazione della superbia, dell’avere successo, carriera, soldi, potere…
Gesù risponde con la Parola: Dt 8,3 “Egli ti ha umiliato, ti ha fatto provare la fame, poi ti ha nutrito di manna, che tu non conoscevi e che i tuoi padri non avevano mai conosciuto, per farti capire che l’uomo non vive soltanto di pane, ma che l’uomo vive di quanto esce dalla bocca del Signore”.

2° tentazione: buttati dal pinnacolo del tempio: fai un gesto spettacolare, fai un miracolo. È’ la tentazione del magico, dell’esteriorità che affascina perché tutti vedono ciò che appare grandioso. Dà la sensazione di potenza, di essere un “super-eroe”. Il diavolo si fa audace, questa volta lo tenta con la scrittura, usando le parole del Salmo 91: ” su ali d’aquila ti reggerà…”
Gesù risponde a sua volta con la Parola:” Non tenterai il Signore tuo Dio…” (Dt. 6,16).

3° tentazione: potere in cambio di adorazione. In cambio del potere il diavolo chiede di sottomettersi a lui e adorarlo. E’ la tentazione del potere, del possesso e dell’idolatria la stessa tentazione per cui ci costruiamo idoli che ci fanno sentire potenti, amati e temuti da tutti.
Gesù risponde:” Vattene satana, temerai il Signore tuo Dio e Lui solo adorerai” riferendosi alle parole di (Dt 6,13).
Gli angeli allora vennero a servire Gesù: ricorda il salmo 91 (ti porteranno sulle loro mani….).
Mt 26,53: “Credi che io non possa pregare il Padre mio, che metterebbe subito a mia disposizione più di 12 legioni di angeli?”. Sono il simbolo della vittoria di Cristo sul demonio.

Queste 3 tentazioni di Gesù sono anche le nostre, quelle quotidiane:
la soddisfazione facile e immediata dei nostri bisogni primari, il desiderio che la nostra preghiera (magari buona e generosa) sia accolta subito e come vogliamo noi, il desiderio di essere “forti”, capaci di fare gesti che tutti vedano…, la tentazione di trasformare cose o anche persone in idoli su cui poggiare la nostra sicurezza, che finiscono per diventare centrali e indirizzare la nostra vita; Il bisogno di far valere sempre e comunque le mie ragioni, senza vedere l’altro, prevaricando spesso con linguaggi, verbali e non, scorretti e comunque non fraterni…
Infine la tentazione più grande che le riassume tutte è quella di voler essere autori e artefici della nostra vita, di non dipendere da Dio, di essere autosufficienti, di rifiutare la nostra creaturalità. E’ l’illusione del “bastare a se stessi”.

Gesù vince il contrasto con satana non con la forza, ma con la Parola, con un atto di fede.
E’ necessario che ci “corazziamo” con la Parola, che sappiamo ribattere alle tentazioni con la forza che essa ci dà e con l’ abbandono fiducioso al Signore che ci ama e provvede a noi sue creature.

Amate i Vostri Nemici

VII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO – ANNO A

Dal Vangelo secondo Matteo (5, 38-48)

Gesù, come abbiamo sentito nel Vangelo di domenica scorsa, non è venuto per abolire la legge mosaica, ma per “darle pieno compimento”, in questo passo troviamo le ultime due antitesi, nelle quali appare ancora la “differenza” richiesta da Gesù ai suoi discepoli rispetto alla Legge di Mosè, che resta valida, ma viene portata alla sua perfezione nella presenza e nella vita stessa di Gesù.
Avete inteso che fu detto: “Occhio per occhio e dente per dente” È la cosiddetta legge del taglione, tesa a fissare un equilibrio tra il danno causato e la riparazione, superando la logica della vendetta lasciata all’arbitrio personale.
Pur essendo una legge saggia nata con l’intento di contenere la vendetta entro certi limiti, rimane nella logica della giustizia di questo mondo.
Gesù chiede di fare un passo in avanti: «Ma io vi dico di non opporvi al malvagio». Propone di rompere con la spirale della violenza, che si genera quando si risponde con la stessa moneta. Questo non significa accettare passivamente ogni prepotenza, ma proporre iniziative di bene, di amore e di pace, che disinneschino l’odio e la violenza.
Gesù ci offre quattro esempi, per superare la spirale della violenza, per ristabilire la giustizia da parte di coloro che appartengono al Regno di Dio.

1.Se uno ti dà uno schiaffo sulla guancia destra, tu porgigli anche l’altra.
Solo un manrovescio può percuotere la guancia destra. Il manrovescio era un oltraggio gravissimo in Israele punito con un’ammenda molto pesante. Gesù dice non di essere più miti nelle pretese di risarcimento, ma di porgere l’altra guancia. È una espressione paradossale, che naturalmente non va presa alla lettera, Gesù non vuole insegnare la passività.
Porgere l'altra guancia significa non rispondere alla violenza con la violenza, al male con il male, ma sempre con il bene, discernendolo volta per volta! Gesù ha vissuto questa scelta: nella Passione non si è opposto al malvagio.

2. A chi vuole portarti in tribunale e toglierti la tunica, tu lascia anche il mantello.
In Israele, uomini e donne indossavano due capi di vestiario sopra il perizoma: la tunica, che era portata sul corpo nudo, e il mantello, nel quale ci si avvolgeva quando faceva freddo e serviva anche da coperta durante la notte per il povero.
Gesù propone il caso limite di ingiustizia di chi viene portato in tribunale perché lo si vuole privare della tunica. Chiaramente tutti gli altri beni gli sono già stati tolti. Che cosa deve fare? Rifiutarsi di entrare in liti e contese e per questo cedere anche il mantello che è l’ultimo indumento che gli rimane.

Gesù ha praticato alla lettera questo: è rimasto completamente nudo sulla croce.
Nella vita incontreremo chi ci vuol togliere il “nostro” per brama di possesso, per invidia, per rancore. Il cristiano può e deve cercare giustizia, ma se non la può ottenere e ha come unica alternativa quella di fare a sua volta il male, non può far altro che accettare anche di perdere il “mantello”.
Quindi l’invito del Signore è quello di rinunciare anche al proprio diritto pur di non mancare all’amore, pur di non entrare in contese cariche di odio e di risentimento.

3. Se uno ti costringerà ad accompagnarlo per un miglio, tu con lui fanne due. Capitava spesso che i soldati romani o qualche signorotto locale angariassero dei poveri contadini e li costringessero a fare da guide o a portare carichi (Simone di Cirene) , che fare, ribellarsi ricorrendo alla violenza?
Gesù chiede di comportarsi secondo la natura di figli di Dio: cioè non fare calcoli, mantenere il cuore libero dai risentimenti e astenersi da qualunque reazione che non sia dettata dall’amore. La rinuncia alla violenza è un segno della presenza del Regno di Dio. Nella vita ci sarà qualcuno che ci caricherà dei suoi pesi, forse lo farà volontariamente, per egoismo, o forse, involontariamente, per bisogno. Il Signore ci dice di accogliere questi pesi con generosità, di trasformare quella pretesa/costrizione nei nostri confronti in accompagnamento dell’altro. San Paolo dirà: “Portate i pesi gli uni degli altri, così adempirete la legge di Cristo” (Gal 6,2).

4. Da’ a chi ti chiede, e a chi desidera da te un prestito non voltare le spalle. Può configurarsi come violenza anche la pressione, l’insistenza di una domanda per ottenere denaro e prestiti. Chi chiede è un bisognoso e Gesù dice di non voltare le spalle. Quando ci viene chiesta la nostra vita (tempo, beni, attenzione...), in tanti e svariati modi, dobbiamo lasciare che sia presa perché è vita dei figli di Dio che si dona. Se si può fare qualcosa, si fa.
Avete inteso che fu detto: “Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico”.
Nell’Antico Testamento chi si intende per prossimo? Il termine si riferisce alla cerchia dei più vicini: familiari, parenti, connazionali, correligionari. Verso costoro c’è un naturale obbligo di amare, cioè di compiere il bene. Quindi è un amore con dei limiti. Gesù però afferma: «Ma io vi dico: amate i vostri nemici». Quindi Gesù propone un amore di un livello superiore, che non ha barriere, non conosce limiti, tanto da inglobare anche il nemico.
È l’apice dell’etica cristiana, è la richiesta dell’amore gratuito e incondizionato che non si aspetta alcun contraccambio e che, come quello di Dio, raggiunge tutti.

Questo è l’amore che Gesù chiede a coloro che vogliono appartenere al Regno di Dio.
Poi Gesù aggiunge: Pregate per quelli che vi perseguitano. La preghiera eleva verso il cielo, unisce al Signore, purifica la mente e il cuore dai pensieri e dai sentimenti dettati dalla logica di questo mondo. Ricordiamo che siamo tutti quanti peccatori, ma amati da Dio ad uno ad uno. Lui, che nel suo amore incondizionato non fa distinzione di persone. E Gesù dà un’immagine di cosa significa questo amore: «Egli fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni». È un’offerta di vita che è rivolta a tutti. Addirittura Gesù inizia dai cattivi, forse perché i loro occhi sono più in debito di luce, più in ansia”. E poi Gesù offre un’altra immagine: «E fa piovere sui giusti e sugli ingiusti». Il sole e la pioggia vogliono dire che l’amore di Dio è un amore dal quale nessuno si può sentire escluso. Gesù non discrimina tra meritevoli e non meritevoli, tra puri e impuri, ma il suo amore si rivolge a tutti quanti. Dio ci ama perdutamente perché Lui è Amore.

“Se amate coloro che vi amano” cosa fate di straordinario? Lo fanno anche i pubblicani “Se date il saluto soltanto ai vostri fratelli, che cosa fate di straordinario?” Fanno così anche i pagani, non siete ancora figli di Dio.
Ed ecco l’invito finale di Gesù: «Voi, dunque, siate perfetti come è perfetto il Padre vostro che è nei cieli” È imitando Dio che possiamo creare una società giusta, radicalmente nuova.
I discepoli, per vivere e testimoniare la venuta del Regno dei cieli, non devono assumere come criteri guida i principi normalmente in vigore tra gli uomini, ma devono conformarsi alla perfezione di Dio.
Gesù imitò il Padre e rivelò il suo amore. Ogni gesto, ogni parola di Gesù, dalla nascita fino alla morte in croce, fu un’espressione di quell’amore.

Al Cuore della Legge.

VI DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO ANNO A MATTEO 5,17-37

Continua la nostra lettura del discorso della montagna. Dopo il brano dedicato alla nuova legge, quella delle Beatitudini, e alle caratteristiche del discepolo (sale della terra e luce del mondo), Gesù dichiara la sua posizione nei confronti della Legge di Mosè. Afferma di essere venuto non per abolire la Legge ma per portarla a compimento. La Legge e i Profeti sono le due grandi parti della Bibbia ebraica: i precetti del Signore e le parole dei suoi servi (i profeti appunto) che ricordavano al popolo di Israele tali precetti nei momenti in cui vi erano delle difficoltà (invasioni, deportazione...). Si tratta dunque di tutto l'Antico Testamento.

I Farisei avevano trasformato la legge in una gabbia soffocante di centinaia di precetti; ma la Legge di Dio non è una gabbia che impedisce la libertà, essa è prima di tutto un dono che Dio ha fatto al suo popolo, con lo scopo di far conoscere la sua volontà salvifica. Anche la libertà è un dono che Dio ha fatto all’essere umano nell’atto della creazione; non può esserci quindi dicotomia tra legge di Dio e libertà. Il Signore dà la legge non per limitare la libertà dell’uomo ma per dare ad essa un senso che lo aiuti a realizzarla pienamente in quanto la libertà si realizza pienamente nella libera obbedienza alla Parola e alla Volontà di Dio. Gesù proclama la validità perenne della Legge fin nei minimi dettagli ma, essendo Egli il Messia predetto dalla Scritture, la porta a compimento; con l’ autorevolezza del Figlio di Dio, va alla radice di ogni comandamento e alla radice troviamo il comandamento dell'amore.

Chi osserva la legge non solo nelle forma esteriore ma nella sua essenza è giusto davanti a Dio; non come gli scribi e i farisei che si accontentavano di assumere una bella facciata rispettando la forma della Legge e non la sostanza.

Gesù mostra in che modo c’è continuità e compimento tra la sua predicazione e gli insegnamenti dell’A.T. e lo fa mediante sei antitesi, (quattro le leggiamo nel brano di oggi: riguardano l’omicidio, l’adulterio, il divorzio e i giuramenti, e due le leggeremo la volta successiva). Dalla loro lettura risulta chiaro in quali termini la Legge si dichiara compiuta. Ciascuna antitesi è introdotta dalla frase: “ Avete inteso che fu detto…ma io vi dico…” in questa espressione Gesù manifesta la sua autorevolezza che è superiore a quella dello stesso Mosè e dei profeti; è l’autorevolezza del Messia e del Figlio di Dio. Cristo approfondisce fino alla perfezione, Egli vuole recuperare il centro della Volontà Divina e cioè il primato della carità. Tutto deve essere letto e valutato alla luce di essa.

La prima antitesi riguarda l'omicidio: Gesù risale alla radice del gesto estremo cioè all'ira e ad ogni atteggiamento che può condurre ad esso. Non basta non uccidere, dobbiamo coltivare in noi atteggiamenti di benevolenza e di accoglienza verso gli altri, nel rispetto della loro vita. Equipara all'omicidio anche altre mancanze di rispetto: la maldicenza e l'offesa. Sono tutti atteggiamenti che sminuiscono la dignità di una persona. Non soltanto il gesto omicida e le sole parole ingiuriose, ma anche la collera interna e i pensieri di odio sono indicati come peccati. Dio viene all’uomo solo mediante l’amore, il “non uccidere” è la soglia minima di un percorso d’amore che siamo chiamati a compiere. “ Se stai portando la tua offerta all’altare e ti ricordi che il tuo fratello che ha qualcosa contro di te…”… devi chiedere perdono di una possibile offesa arrecatagli.
L'offerta a Dio deve aspettare di essere compiuta da un animo pienamente rappacificato in quanto la comunione si esprime prima nei rapporti con le altre persone e poi viene portata a compimento davanti a Dio.

La seconda antitesi riguarda l’adulterio. Anche qui Gesù va alla radice del peccato in questione: già il desiderio di una persona sposata ad altri è un adulterio, rompe una relazione di armonia tra persona e persona, tra la persona e il proprio Dio. Del resto questo divieto del desiderio era già previsto dal nono comandamento. Le parole del sesto comandamento proibiscono l’infedeltà coniugale, ma Gesù va molto al di là: non solo l’azione, ma anche lo sguardo concupiscente su un’altra persona è già adulterio.
L'occhio nell'anatomia spirituale ebraica era la sede dei desideri e delle passioni, il Signore ci insegna a tenere sotto controllo le nostre passioni: “Se il tuo occhio ti dà scandalo cavalo… se la tua mano ti dà scandalo, tagliala.. è meglio per te perdere una delle tue membra che entrare tutto intero nella geenna”. Gesù ci invita decisamente a indirizzare al bene i nostri desideri e le nostre azioni. La Geenna era l’inceneritore pubblico di Gerusalemme, qui indica la condanna alla pena eterna.
Le parole dure di Gesù hanno lo scopo di metterci in guardia: Se è in gioco la vita eterna con pericolo di dannazione occorre avere la saggezza di fuggire dalle occasioni per evitare il pericolo che incombe.

La terza antitesi riguarda il divorzio. La legge ebraica lo permetteva, o meglio il marito poteva ripudiare la moglie qualora avesse trovato in lei qualcosa di vergognoso (Dt 24,1). Anche per questa norma Gesù risale al significato più profondo del matrimonio, simbolo del legame di amore indissolubile che c'è tra Dio e le sue creature.

Nella quarta antitesi Gesù chiede ai suoi discepoli di non giurare; se una persona è retta e onesta non deve prendere a testimone nessuno per avvalorare le proprie affermazioni. E' la sua rettitudine che vale come garanzia di ciò che dice. “Non giurare neppure sulla tua testa…” il corpo è dono di Dio e non ne possiamo disporre a nostro piacimento né cambiare la natura delle cose. Avvertimento utile per quanti hanno una concezione oggi così fluida della natura umana.
“Il vostro parlare sia sì, sì, no, no. Tutto il resto viene dal maligno”
.

Se il Sale Perde Sapore?

Vangelo di Matteo 5,13-16 V domenica del tempo ordinario

Nel testo di questa domenica, Cristo, dopo aver proclamato le beatitudini, ci indica la missione della comunità: si definisce il ruolo dei discepoli, che sono «sale» e «luce», mostrando non quello che essi devono diventare, ma quello che essi sono già.

Per comprendere il messaggio occorre spiegare il senso di alcune parole contenute nel testo:
VOI: Gesù si rivolge in primo luogo ai discepoli, cioè quelli a cui chiede il “capovolgimento” delle
beatitudini, quelli che cercano di seguirlo. Oggi quei “voi” siamo noi cristiani.

SALE: esso ha la capacità di conservare i cibi, inoltre dà un valore duraturo ad ogni patto, ad ogni alleanza che diventa perpetua; Levitico 2,13: “Dovrai salare ogni tua offerta di oblazione: nella tua oblazione non lascerai mancare il sale dell’alleanza del tuo Dio; sopra ogni tua offerta porrai del sale.
Dà sapore e gusto al cibo, rende piacevole ciò che si mangia; Luca 15,34: Buona cosa è il sale, ma se anche il sale perde sapore, con che cosa verrà salato? Non serve né per la terra né per il concime e così lo buttano via.
Il sale poi si scioglie: non è più visibile, non si distingue dalla massa in cui si è sciolto; Il discepolo è sale, non sarà ma è; sale della terra: di Israele, ma oggi del nostro mondo, della nostra realtà vitale, famiglia, lavoro, scuola, città. Deve “lasciarsi sciogliere”: come il sale non esiste per sé ma per dare sapore, così il cristiano non esiste per sé ma per servire. Deve dare sapore alla vita spesso insipida o con cattivi sapori (violenza, aggressività, indifferenza, noia, …). Il rischio è quello di perdere sapore: perdere la forza che viene dalle opere buone e dalla testimonianza.

LUCE: la luce è Dio e la sua legge: Isaia 9,1: il popolo che camminava nella tenebre ha visto una grande luce.
Salmo 27: Il Signore è mia luce e mia salvezza, di chi avrò timore?
Isaia 49,6: io ti renderò luce delle nazioni, perché porti la salvezza fino all’estremità della terra.
Isaia 60,1: Alzati, rivestiti di luce, perché viene la tua luce, la gloria del Signore brilla su di te.
Cristo è la luce del mondo, Gv 9,5: finché sono nel mondo io sono la luce del mondo.
Gv 12,46: io sono venuto nel mondo come luce, perché chiunque crede in me non rimanga nelle tenebre.

La città posta sulla collina: è visibile da tutte le parti, è difendibile e raggiungibile da ogni luogo. Qui probabilmente indica Gerusalemme, posta sul colle ed elevata.

LAMPADA: Mc 4,21: viene forse accesa la lampada per essere messa sotto il moggio o sotto il letto? O non invece per essere messa sul candelabro?
Lc8,16: nessuno accende una lampada e la copre con un vaso o la mette sotto il letto, ma la pone su un candelabro, perché chi entra veda la luce. La lampada non è sorgente di luce, ma la riceve e la diffonde.
Moggio: strumento per misurare il grano. Veniva usato per soffocare la fiamma della lucerna senza che facesse fumo.
Il discepolo è chiamato ad essere luce. Anche la luce non esiste per sé, ma per illuminare il cammino. E’ Cristo la luce, il discepolo la riflette, la rimanda ed è chiamato a illuminare il cammino della comunità.

PERCHE’VEDANO LE VOSTRE OPERE BUONE, quelle indicate nelle beatitudini; i cristiani si distinguono per come si comportano, per come si amano.
RENDANO GLORIA: il fine ultimo della testimonianza del discepolo è la gloria di Dio, non di se stesso o di ciò che ha fatto.

La comunità cristiana è «sale» quando ha il sapore delle Beatitudini. Ed è «sale della terra», poiché il Vangelo dà senso non solo all’esistenza personale, ma anche a quella di ogni persona e di tutta la comunità umana.
Il credente non è più detto luce, ma lampada, poiché riceve da Cristo la sua luce. Naturalmente la lampada svolge il suo compito solo se è messa sul lucerniere e non viene nascosta. Il cristiano deve sfolgorare davanti agli uomini come esempio efficace. Il cristiano che è luce e sale, che, cioè, testimonia nella vita le beatitudini, spronerà altre persone ad amarlo, procurando la gloria di Dio Padre.

Oggi, in questa storia difficile, dove emerge l’individualismo e l’indifferenza, siamo chiamati a ridare senso, ridare valore alla vita, prima di tutto alla nostra, per poter essere per gli altri luce e sale.

Invitati ad Essere Felici.

IV DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO – ANNO A Mt. 5,1-12

Le Beatitudini aprono il “Discorso della montagna”, che continuerà sino al cap.7,29 del Vangelo secondo Matteo. Gesù, salendo sul monte e donando le Beatitudini, richiama la figura di Mosè quando promulga il decalogo sulla montagna del Sinai. Il messaggio è indirizzato ai discepoli, ma all’orizzonte ci sono le folle, cioè tutta l’umanità, quindi è un messaggio per tutta l’umanità. Gesù comincia il suo insegnamento con l’annuncio di una felicità completa : il termine beati, ossia felici, compare nove volte. È come un ritornello che ci ricorda la chiamata del Signore a percorrere insieme a Lui la strada che conduce al Regno di Dio e alla vera felicità. Proclamando le Beatitudini, Gesù ci delinea il ritratto di se stesso e, su tale base, la fisionomia del discepolo. Si tratta di un modo nuovo di essere con Dio, con il prossimo e con se stessi. L’uomo, che è stato creato ad immagine e somiglianza di Dio, non è fatto per possedersi, ma per donarsi. Gesù nelle Beatitudini “rovescia” i criteri mondani: chiama beati i poveri, gli afflitti…, mentre il mondo dice che per avere la felicità si deve essere ricchi, potenti, sempre giovani e forti, godere di fama e successo.
1. Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli – Gesù è il povero in spirito, che da ricco si fa povero per arricchirci (2Cor 8,9). I “poveri in spirito” sono soprattutto gli umili. Essi sentono di essere niente, ma un niente amato e riempito da Dio, come Maria – di cui Dio “ha guardato l’umiltà” (Lc 1,48) -, come Gesù “umile di cuore” (Mt 11,29). Non si tratta solo di poveri in rapporto alla ricchezza, ma di coloro che hanno scelto la povertà interiormente. È sostanzialmente un atteggiamento di abbandono fiducioso in Dio, che implica libertà da se stessi e dalle cose, solidarietà con i bisognosi.
Papa Francesco ha detto: “I poveri sono luogo rivelativo di ciò che ciascuno è realmente: mano allungata in attesa di essere incontrata, colmata, consolata e mano generosa che incontra, colma, consola. Ciascuno a suo modo è l’uno e l’altro, mano che riceve e mano che dona. Un ricevere e un dare frammenti di felicità. Il contrario intristisce”.

2. Beati quelli che sono nel pianto, perché saranno consolati – Motivi di pianto e di sofferenza sono la morte, la malattia, le avversità, il peccato e gli errori: semplicemente la vita di ogni giorno, fragile, debole e segnata da difficoltà. Una vita a volte ferita e provata da ingratitudini e incomprensioni. Dio in Gesù visita chi soffre e apporta consolazione, rivelandosi come “Dio di ogni consolazione! Egli ci consola in ogni nostra tribolazione perché possiamo anche noi consolare…” (2Cor 1,3-4). La consolazione piena è quella che si sperimenterà in cielo, ma anche su questa terra c’è spazio per la consolazione, attraverso ad esempio una parola, una carezza, un abbraccio: in ogni persona sofferente è presente Gesù.

3. Beati i miti, perché avranno in eredità la terra – La mitezza di Gesù si vede fortemente nella sua Passione. Ricordiamo però anche il seguente passo in cui Gesù dice: “Venite a me… imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita” (Mt 11,28-29). Gesù il mite, proclama beati i miti, non la rassegnazione degli umiliati e offesi, ma uno stile che traduce lo stile di Dio in Cristo, lo stile del dono, lo stile di chi va verso l’altro non con violenza, ma con amore e dolcezza d’animo.

4. Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati – Gesù dice: “…siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste” (Mt 5,48). La proclamazione di Gesù è chiara: chi ascolta le sue parole e le mette in pratica (cfr. Mt 7,24) è davvero beato perché il suo desiderio di giustizia sarà saziato. Vita nella giustizia equivale a vivere secondo il disegno di amore che Dio vuole realizzare in questo mondo, quindi secondo l’insegnamento e il comportamento di Gesù.

5. Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia – Coloro che esercitano la misericordia troveranno misericordia. Gesù ci ha detto: «Siate misericordiosi, come il Padre vostro è misericordioso» (Lc 6,36). Quanto più si accoglie l’amore del Padre, tanto più si ama. I misericordiosi sono in sintonia con il cuore di Dio. La misericordia non è una dimensione fra le altre, ma è il centro della vita cristiana: non c’è cristianesimo senza misericordia. L’amore misericordioso e benevolo di Dio si manifesta principalmente in due modi: perdona i peccati e soccorre e protegge i bisognosi. Perciò il giusto davanti a Dio lo imita nel suo agire verso il prossimo, perdonando i torti ricevuti e impegnandosi a soccorrere generosamente gli indigenti.

6. Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio – Gesù è il puro di cuore, radicalmente capace di comunione con il Padre e radicalmente capace di amare l’altro in modo sincero, cioè senza secondi fini, senza mai strumentalizzarlo, ma lasciandolo libero di rispondere o meno al suo amore. Con l’intera sua vita Egli ci ha insegnato in cosa consiste la vera purezza di cuore: in un cuore semplice, non doppio, non diviso; un cuore dove solo Dio detta le scelte e da cui scaturiscono comportamenti sinceri di amore e comunione. Vedere con questo cuore è vedere il mondo attraverso lo sguardo di Dio. I puri di cuore vedranno Dio nel compimento dell’eternità, ma anche sulla terra, perché vedere Dio vuol dire intendere i disegni della Provvidenza in quel che ci accade, riconoscere la presenza di Dio nei Sacramenti, nei fratelli, soprattutto poveri e sofferenti, e riconoscerLo dove Lui si manifesta.

7. Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio – Solo chi vive nella pace di Dio può diventare strumento di pace umana. Gli operatori di pace sono gli annunciatori del Vangelo, tutti coloro che lavorano per la venuta del Regno di Dio sulla terra. Ciascuno di noi è chiamato ad essere un artigiano della pace, unendo e non dividendo, estinguendo l’odio e non conservandolo, aprendo le vie del dialogo e non innalzando muri.

8. Beati i perseguitati per la giustizia, perché di essi è il regno dei cieli – Questa Beatitudine rimanda alla quarta, è in stretta relazione con la precedente e strettamente legata alla successiva. La pace di cui parla Matteo è frutto della giustizia. Generare giustizia e pace non è mai a basso prezzo, il costo può essere la persecuzione dalle mille sfaccettature. Il mondo dell’ingiustizia non gradisce lo sguardo sugli ultimi facendo giustizia a loro vantaggio.

9. Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno … nei cieli – Questa Beatitudine si riferisce in maniera specifica ai discepoli di Gesù del suo tempo e, per estensione, di ogni luogo e tempo. Notiamo il passaggio al “voi”. E’ il “voi” ecclesiale ad essere direttamente chiamato in causa nell’ora della prova. L’ora dell’insulto, quando viene intaccata la dignità della persona, la sua stima e onorabilità; l’ora della persecuzione, quando viene intaccata l’integrità della vita della persona; l’ora della diffamazione, quando viene intaccata la rispettabilità pubblica della persona. Un calpestare per una ragione precisa, Cristo, e a partire da un puntuale dato di fatto, mentendo. Non è quindi una sofferenza generica di indole sociale, ma essa ha una matrice religiosa, nasce dalla coerenza con la propria fede.

Concludo tornando al primo versetto con due immagini: 1^ Gesù sale sul monte e guarda, guarda le folle, cioè tutta l’umanità, e quindi anche ciascuno di noi, con una tenerezza profonda. Posa il suo sguardo sull’uomo, che affronta le vicende di tutti i giorni fatte di fatiche, lacrime, speranze e sorrisi, ed entra profondamente nel cuore di ognuno, cuore di cui Lui conosce ogni palpito. 2^ Gesù sale sul monte, dove può farsi vedere. Vuole che anche noi vediamo Lui. Sono tante le difficoltà che ci riguardano e ci spaventano, ma Gesù continua a ripetere “Beati” ogni volta che, vivendo queste situazioni di difficoltà, guardiamo a Lui e diventiamo un piccolo frammento di beatitudine che cammina nella storia, raccontando il Vangelo attraverso la nostra vita.

Convertitevi perché è vicino il Regno dei Cieli

TERZA DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO ANNO A Mt.12-23

Dopo la predicazione del Battista ed il Battesimo di Gesù, e dopo le tentazioni nel deserto che incontreremo all’inizio della Quaresima, l’evangelista Matteo ci presenta l’inizio della predicazione di Gesù. Il brano è articolato in tre scene, la prima rappresenta la cornice storico-spirituale in cui si colloca il primo annuncio di Gesù. Egli lascia Nazaret e si trasferisce a Cafarnao, una cittadina sul lago di Galilea, dove un tempo abitavano le tribù di Zabulon e Neftali. La regione è uno snodo di passaggio e frequentazione di diversi popoli pagani, per questo è chiamata Galilea delle Genti (o dei pagani) essi si erano mescolati con gli ebrei del luogo che avevano così perso la loro identità originaria e contaminato la loro fede in una sorta di sincretismo religioso.

In questo luogo, a compimento delle profezie, Gesù inizia il suo ministero, rivolto, in prima istanza, alle pecore perdute della casa di Israele, ma lasciando già intravedere il carattere universale della salvezza. Al popolo smarrito, che vive nelle tenebre, Gesù porta la luce della ripristinata relazione con Dio. Anche nelle tenebre che sono fuori e dentro di noi, Gesù porta la sua luce se noi lo accogliamo e ci mettiamo alla sua sequela. La sua predicazione inizia con l’invito alla conversione, al cambiamento radicale della propria vita che inizia cominciando a cambiare il nostro modo di pensare egoriferito; convertirsi vuol dire uscire da sé stessi e aprirsi al modo nuovo di pensare ed agire di Gesù. L’urgenza della conversione è data dalla vicinanza del “Regno dei cieli” cioè di Dio che si fa presente nella nostra vita, si prende cura di noi e ci invita ad accoglierlo.

La seconda scena presenta la chiamata dei primi apostoli, due coppie di fratelli che svolgevano il loro quotidiano lavoro. A Simone e Andrea, pescatori, Gesù dice: ”Venite dietro a me” e promette ” Vi farò pescatori di uomini”. Non cambiano vita, non cambiano lavoro, rimangono pescatori ma in modo tale che il loro modo di vivere e di essere diventi attraente e affascinante e richiami molti altri discepoli alla sequela di Gesù. Anche i figli di Zebedeo, Giacomo e Giovanni, sono chiamati mentre stanno riparando le reti; alcuni esegeti vedono in questa occupazione il compito di divenire “riparatori di anime”.

La chiamata dei discepoli diventa paradigma di ogni chiamata: anche nel nostro quotidiano Gesù passa e ci chiama a seguirlo, ad essere suoi discepoli, a condividere la sua vita, non abbandonando le nostre occupazioni di ogni giorno ma trasformandole imitando lo stile di Gesù. Questi primi chiamati diventano così per noi un modello concreto di conversione, essi infatti, attratti dal fascino meraviglioso di Gesù, subito lo seguono e mettono in pratica i suoi insegnamenti, orientano su di Lui la loro esistenza. Chi vuole seguire Gesù deve sceglierlo come il bene assoluto. E Gesù li abilita a divenire “pescatori di uomini”, cioè a continuare con la propria vita e la propria testimonianza ad invitare gli uomini alla conversione perché tutti possano entrare nel Regno di Dio, in relazione con Lui.

La terza scena introduce, nell’ultimo versetto, l’attività evangelizzatrice e sanante di Gesù; essa deve diventare lo stile di vita della sua Comunità (apostoli). Diventa così l’esperienza qualificante della vita della Chiesa e di ogni cristiano.

Natale del Signore

Lc 2,1-14

L’evangelista Luca nel II capitolo del suo Vangelo ci riporta la nascita di Gesù nella città di Davide e la sua manifestazione ai pastori. La narrazione completa va fino al vv 20 e si compone di tre quadri: -La nascita di Gesù a Betlemme – L’annuncio degli angeli ai pastori – La loro venuta a Betlemme. Il brano che leggiamo comprende i primi due.

1"In quei giorni un decreto di Cesare Augusto ordinò che si facesse il censimento di tutta la terra." Luca colloca la nascita di Gesù all'interno della storia profana. Ci dà le coordinate spazio temporali in cui collocare storicamente l’Evento straordinario della nascita del Figlio di Dio. Il suo intento forse non era tanto quello della precisione storica, quanto quello di inserire la nascita di Gesù nella storia universale. Le parole di Luca hanno però un senso teologico. Gesù doveva essere compreso nel censimento di tutta la terra, anche lui ormai faceva parte dell'umanità.
"3 Tutti andavano a farsi censire, ciascuno nella propria città..
4 Anche Giuseppe, dalla Galilea, dalla città di Nàzaret, salì in Giudea alla città di Davide chiamata Betlemme: egli apparteneva infatti alla casa e alla famiglia di Davide. 5 Doveva farsi censire insieme a Maria, sua sposa, che era incinta."
Tutte queste indicazioni preliminari permettono a Luca di affermare due fatti molto importanti riguardo la nascita di Gesù: egli era discendente di Davide e nacque a Betlemme; così si compiva la profezia di Michea (5,2): "E tu Betlemme di Efrata... da te uscirà per me colui che deve essere il capo d'Israele.”

L’evangelista presenta con semplicità e solennità la nascita di Gesù.
"6 Mentre si trovavano in quel luogo, si compirono per lei i giorni del parto. 7 Diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo pose in una mangiatoia, perché per loro non c'era posto nell'albergo." Particolare attenzione è data ai gesti compiuti da Maria: partorì — lo avvolse in fasce – lo depose nella mangiatoia, e alla non accoglienza incontrata dalla coppia “non c’era posto per loro nell’albergo”.
Quale contrasto con il racconto della nascita di Giovanni: Il Battista nasce in casa, nella gioia di tutta una contrada, Gesù nasce lontano da casa, nella provvisorietà e nella quotidianità. Nessuna festa, Maria prende il bambino, lo avvolge in fasce e lo depone in una culla di fortuna.
Gesù è detto primogenito, cioè colui che all'interno della famiglia godeva di alcuni privilegi giuridici, in particolare la consacrazione a Dio (Es 13,2). L'evangelista prepara così l'episodio della presentazione al tempio di Gesù bambino. Le fasce e la mangiatoia serviranno come riferimenti per i pastori (v. 12). Non c'era posto per loro a Betlemme (per motivi non precisati) quindi Gesù, pur essendo discendente di Davide, viene al mondo in una situazione di penuria e precarietà.

Il secondo quadro è dominato dall’annuncio della nascita del Signore recato dall’angelo ai pastori. questa nascita, decisiva per l’umanità ha come “segno” un bambino posto in una mangiatoia. Da qui emerge il chiaro rimando al mistero dell’agire umile di Dio, il quale può essere frainteso, non riconosciuto dagli uomini e per questo deve rivelarlo una voce celeste. "8 C'erano in quella regione alcuni pastori che, pernottando all'aperto, vegliavano tutta la notte facendo la guardia al loro gregge." Cambia lo scenario: dal luogo chiuso della stalla si passa ai campi nei dintorni di Betlemme. Qui vi sono dei pastori che vegliano il proprio gregge. "9 Un angelo del Signore si presentò a loro e la gloria del Signore li avvolse di luce. Essi furono presi da grande timore." Perché l'annuncio della nascita di Gesù viene fatto ai pastori? Nella letteratura rabbinica i pastori sono una categoria di persone poco raccomandabile. Dio dunque sceglierebbe proprio coloro che sono più disprezzati per il primo annuncio dell'incarnazione. Ma la Bibbia in generale considera positivamente il mestiere di pastore. Probabilmente questo annuncio ai pastori è motivato dal fatto che anche Davide fosse pastore prima di diventare re di Israele. Quindi la presenza dei pastori, come la città di Betlemme e la sua discendenza da Davide, sottolinea nuovamente la messianicità di Gesù.

"10 ma l'angelo disse loro: "Non temete: ecco, vi annuncio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo": L'angelo li rassicura, come Gabriele ha rassicurato Maria (1,30). L'annuncio è di gioia, la gioia caratteristica dei tempi nuovi e che percorre tutto il vangelo "11 oggi, nella città di Davide, è nato per voi un Salvatore, che è Cristo Signore."

Il tema dell'oggi chiude tutto il periodo delle promesse e delle attese. E' l'oggi che diventa presente in ogni epoca nella Chiesa. Il lieto annuncio riguarda la nascita del Messia davidico. Per ora l'annuncio degli angeli rimane nell'ambito delle attese di Israele. Salvatore: è la funzione principale del Messia, liberazione e remissione dei peccati. Cristo Signore: è il condensato della confessione di fede cristiana: "Dio ha costituito Cristo e Signore quel Gesù che voi avete crocifisso!" At 2,36. Per Luca, come per ogni credente, la realtà messianica di Gesù è inseparabile dalla sua risurrezione.

"12 Questo per voi il segno: troverete un bambino avvolto in fasce, adagiato in una mangiatoia". Il segno dato dagli angeli ai pastori è in netto contrasto con quanto essi hanno annunciato. La gloria di Dio si rivela nella povertà terrena. E' il mistero di un Dio che si avvicina all'umanità nel bisogno, Dio viene nei panni di un bambino inerme, bisognoso di tutto; un segno che prefigura l'insegnamento, il comportamento e la morte di Gesù. Un segno che mette l'uomo davanti alla scelta di convertirsi. Appare il rovesciamento dei valori che costituisce la base della fede cristiana.
"13 E subito apparve con l'angelo una moltitudine dell'esercito celeste, che lodava Dio e diceva: 14"Gloria a Dio nel più alto dei cieli e sulla terra pace agli uomini, che egli ama". Improvvisamente lo schema dell'annunciazione si apre in un inno di lode cantato dalle schiere angeliche: il cantico nuovo della liturgia celeste che celebra la nascita del Messia.

La parola "pace" esprime tutto il contenuto della salvezza che ha incominciato a compiersi a Betlemme. Non è solo assenza di guerra, ma comunione piena con Dio che si ripercuote in rapporti giusti e pieni tra gli uomini e con se stessi. La pace scende sugli uomini che Dio ama, cioè coloro che Dio ha scelto, non solo l'Israele storico, ma al popolo di Dio al quale tutte le nazioni sono chiamate ad aderire. Allora il canto conclusivo degli angeli diventa un esplicito riconoscimento del mistero di Dio che si realizza nella nascita di Gesù. Il canto non solo si rivolge a “Dio nel più alto dei cieli” ma diventa messaggio di speranza e di pace per il cosmo e per tutti gli uomini ”e pace in terra agli uomini che Egli ama.” Soprattutto in questo tempo in cui viviamo sotto la minaccia costante di una guerra totale, invochiamo da Dio il dono grande di quella Pace che solo lui può donarci . Uniti a Papa Francesco chiediamo la pace per il popolo ucraino e per il mondo intero e cerchiamo anche di essere noi stessi costruttori di pace.

Giuseppe, uomo giusto

IV DOMENICA DI AVVENTO – Mt 1,18-24
Matteo inserisce il racconto della nascita di Gesù nel contesto storico, dà corpo alle sue origini terrene. Egli si rivolge ad ebrei osservanti che conoscono bene la scrittura e i profeti. Il suo vangelo inizia con la genealogia di Gesù, partendo da Abramo, patriarca della grande promessa, uomo a cui Dio ha promesso una terra dove scorre latte e miele, passando attraverso Davide, grande re di Israele e cantore del suo Dio, fino ad arrivare a Giuseppe da cui nacque Gesù. In questo modo l’evangelista raccorda la figura e l’insegnamento di Gesù all’Antico Testamento: Gesù è dentro il piano di salvezza, annunciato dai profeti e già in atto nell’antica alleanza di Dio col suo popolo.

Subito dopo la genealogia Matteo ci narra come avvenne la nascita di Gesù. Il Vangelo di Matteo riserva un posto speciale a Giuseppe. Egli è presentato mentre vive un serio dramma spirituale, venendo posto di fronte al mistero divino.

v.18 : Gesù è generato, non si dà la vita da solo, viene in una discendenza che ha un prima e un dopo. Matteo non narra l’annunciazione, dice solo che Maria si trovò incinta: dato di fatto, storia indiscutibile. Luca ci narra l’incontro di Maria con l’angelo e tutto il travaglio di quel momento di grande scelta. Matteo narra i fatti e il loro esito: questo nel rispetto dell’obiettivo che ha il vangelo di Matteo.
v.19 : Giuseppe ha una sua idea sulla soluzione del caso, senza creare problemi a sé (unirsi con una donna incinta di un figlio non suo) o a Maria (essere ripudiata). E’ un uomo giusto, pio, che segue la legge del Signore e in questa cammina.

v.20 : l’angelo appare a Giuseppe in sogno: è il modo in cui Dio si manifesta, fa conoscere la sua volontà (ricordiamo il sogno dei re magi, il profeta Daniele, Pietro negli atti degli apostoli). Angelo=messaggero di Dio. Troviamo l’angelo nell’annunciazione, gli angeli dai pastori a Betlemme. In tutte queste situazioni l’angelo porta un annuncio, una novità e perciò anche un compito da svolgere. “Non temere”: stesse parole usate con Maria e con i pastori. “Non temere Maria perché hai trovato grazia presso Dio” ; “Non temete, ecco vi annuncio una grande gioia”. A Giuseppe l’angelo dice “Non temere di prendere con te Maria perché quello che è generato in lei viene dallo Spirito Santo…egli salverà il mondo dai suoi peccati.”
V:21 : l’angelo evidenzia il ruolo di Gesù nella storia di salvezza e anche la sua divinità, solo Dio infatti può salvare dai peccati. In continuità con le profezie (Isaia).Gli darai nome Gesù: nella cultura ebraica il nome era dato dal padre (pensiamo a Zaccaria e alla nascita di Giovanni). Il nome è importante perché descrive l’identità della persona: Gesù = Iahvè salva, e la sua missione.

Di Giuseppe si dice ben poco: non si sa quali sentimenti, quali dubbi o incomprensioni abbia vissuto: “pensava di ripudiarla in segreto”, “stava considerando queste cose”.
Indubbiamente l’annuncio è sconvolgente, incomprensibile dal punto di vista umano. Senz’altro Giuseppe coglie di essere dentro qualcosa di più grande: è chiamato ad essere custode di un mistero e nello stesso tempo coinvolto nella storia che genera il salvatore.

Il brano si chiude con Giuseppe che, svegliato dal sonno, esegue quanto l’angelo del Signore gli aveva detto. Matteo non ci riporta reazioni o pensieri di Giuseppe: dice solo “fece come gli aveva ordinato”. Si fida, non discute, agisce, si assume la responsabilità.
In questo modo egli diventa il rappresentante di tutti i credenti, destinatari della salvezza. Ciascuno di noi per partecipare pienamente a tale dono deve accogliere la Parola di Dio e attuarla fedelmente.

Rallegratevi

III DOMENICA DI AVVENTO-- ANNO A

(Mt 11, 2-11)
- Giovanni Battista era imprigionato nella fortezza di Macheronte. Perché è in carcere? Secondo Matteo, perché aveva denunciato il comportamento immorale di Erode Antipa che aveva ripudiato la propria moglie per unirsi a quella di suo Fratello Filippo. Ma uno storico del tempo, Giuseppe Flavio, dice che Erode aveva messo in prigione il Battista perché temeva la sua popolarità. - In carcere a Giovanni giungono notizie sull’attività di Gesù (quel Gesù che aveva battezzato e additato come Messia) e lui ha la netta sensazione che Gesù, nel compiere la sua missione, non corrisponda ai connotati del Messia che aveva annunciato.

Giovanni aveva annunciato “colui che viene” con tinte forti: egli è il più forte, colui che esercita il terribile giudizio di Dio, colui che tiene in mano la scure e la pala per fare piazza pulita di quanti operano il male (vedi Mt 3,1-12). Invece... l’atteso Gesù sembra non corrispondere a quest’attesa! Gesù sta facendo cose diverse: non esclude, non distrugge, ma accoglie i peccatori e mangia con loro, va in cerca degli ultimi, si schiera contro l’ipocrisia dei “religiosi benpensanti”, chiama a decidersi per Lui.

C’è un altro elemento che forse lascia perplesso il Battista: lui conosce molto bene ciò che hanno detto i profeti; in Isaia 61,1 si legge: “Lo Spirito del Signore Dio è su di me… mi ha mandato… a proclamare …la scarcerazione dei prigionieri”. Se il Messia libera i prigionieri, perché non libera anche lui? - Il carcere è un luogo di segregazione e di oscurità. In questa oscurità che annebbia la vista, Giovanni non riesce a vedere e a comprendere chi sia davvero Gesù. Giovanni soffre perché si trova in un doppio buio: nel buio di una cella e nel buio del cuore. Non capisce lo stile di Gesù e vuole sapere se è proprio Lui il Messia, oppure se si deve aspettare un altro. Manda quindi i suoi discepoli a porgli una domanda: «Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?». È un “sei tu” che rivela uno sconvolgimento in Giovanni. Egli è nel dubbio, un dubbio che purifica la sua fede; si apre al mistero, interroga Gesù, si fa dire da Lui, dalla Sua Parola, chi sia veramente, senza attaccarsi alle proprie idee su Dio: lascia che sia Gesù a rivelarglielo! “Sei tu, Signore…?”: è una domanda profonda, che va al cuore della nostra fede, una domanda che in fondo in fondo c’è nel cuore di tutti noi.

- Alla domanda di Giovanni “sei tu?”, segue la splendida risposta di Gesù che non è fatta di ragionamenti, è un elenco di ciò che accade quando il Messia di Dio entra nel mondo e viene accolto. Sono sei nuove realtà e sono tutte segni di salvezza, nessuna di condanna, è il mondo nuovo che inizia. Quali sono questi eventi? -I ciechi, cioè coloro che camminano al buio, incapaci di vedere il vero senso della vita, riacquistano la vista. - Gli zoppi, cioè coloro che incespicano nel loro percorso verso la casa del Padre, camminano. -I sordi, cioè coloro che sono chiusi in se stessi, che non ascoltano altro se non la voce dei propri istinti, delle proprie passioni, delle proprie bramosie, odono. -I lebbrosi, cioè coloro che provano vergogna di se stessi, perché si sentono ripugnanti a causa della lebbra del loro peccato e sono emarginati, vengono purificati. - I morti, cioè coloro che pensavano solo a bere, a mangiare, a godersi la vita, risorgono. -E poi ai poveri è predicata la buona novella. I poveri sono quelli che si ritenevano dei miserabili senza speranza. mentre adesso anche per loro c’è salvezza, anche per loro c’è l’amore incondizionato di Dio. Sono sei azioni: il numero sei ricorda i giorni della creazione, quindi Gesù, in prolungamento con il Dio della creazione, continua a comunicare vita. Egli si rifà ad alcune profezie di Isaia che riguardavano l’azione salvifica di Dio per il futuro: “Allora si apriranno gli occhi dei ciechi e si schiuderanno gli orecchi dei sordi. Allora lo zoppo salterà come un cervo, griderà di gioia la lingua del muto”. (Is 35,5-6) “Ma di nuovo vivranno i tuoi morti, risorgeranno i loro cadaveri”. (Is26,19) “Udranno in quel giorno i sordi le parole del libro; liberati dall’oscurità e dalle tenebre gli occhi dei ciechi vedranno”. (Is 29,18) “… mi ha mandato a portare il lieto annunzio ai miseri”. (Is, 61,1) In Isaia manca ogni riferimento ai lebbrosi, che invece Gesù aggiunge. I lebbrosi erano considerati maledetti da Dio, inavvicinabili e schiavi della morte, senza speranza, ma anche per loro è arrivata la salvezza. Con questa allusione agli oracoli di Isaia, Gesù mostra a Giovanni che le sue opere inaugurano veramente l’era messianica, ma sotto forma di benefici e di salvezza, non di forza e di castigo.

Gesù risana l’uomo nel profondo, lo perdona, lo trasforma, lo guarisce. L’uomo passa così da uno stato di incompiutezza a uno di pienezza. Gesù non è venuto a cambiare le strutture o a trasformare la società: è venuto a risanare i cuori degli uomini. Solo se cambia il nostro cuore, potrà cambiare anche il mondo! Pensiamo alle persone che si sono trasformate grazie all’incontro con il Signore! Gesù viene a ridare vita vera all’uomo, la vita nuova che si può sperimentare aprendosi alla fede, alla relazione con Lui. - Gesù conclude la sua risposta con una beatitudine, è la 10ª beatitudine che troviamo nel Vangelo di Matteo (dopo quelle che aprono il Discorso della montagna): “Beato chi non trova in me motivo di scandalo!”. Scandalo significa ostacolo e qual è lo scandalo? È lo scandalo della misericordia. Mentre il castigo di Dio indubbiamente intimorisce, ma non scandalizza le persone, la misericordia scandalizzava e continua ancora a scandalizzare, specialmente quelli che pensano che Dio li ami per i loro meriti, per i loro sforzi e non sopportano l’immagine di un Dio-misericordia. Dio-misericordia significa che il suo amore non conosce gli ostacoli posti dagli uomini, il suo amore vuole arrivare a tutti. Anche chi non lo merita, anche gli indegni, anche gli impuri, i peccatori sono oggetto dell’amore di Dio. Questo è lo scandalo della misericordia. Beato chi non si scandalizza del vero Dio che Gesù ci rivela, quel Dio che si è fatto uomo di umili origini, che ha cercato i più lontani, che è vissuto poveramente, che è morto miseramente in croce... un Dio spesso così distante dal nostro modo di immaginarlo... Dio non è un implacabile giustiziere, ma un Dio amorevole, che ci cerca, ci ama, ci perdona, soffre con noi, che vuol farsi uno con ognuno di noi!

Un Dio che, anche attraverso di noi, vuole continuare a sollevare ogni miseria, asciugare ogni lacrima, far sentire la sua tenerezza a ogni persona. Noi siamo le sue mani, la sua carezza, i suoi occhi, la sua voce, il suo sorriso, il suo cuore, per rivelare a tutti la loro preziosità. Anche con la preghiera possiamo aiutare.

- Giovanni chiede di sapere chi è Gesù e Gesù stesso ci rivela chi è Giovanni. - “Che cosa siete andati a vedere nel deserto? Una canna sbattuta dal vento?”. La risposta è chiaramente no. Giovanni non è un opportunista che si adegua a tutte le situazioni, che si muove a seconda della convenienza. - Allora, che cosa siete andati a vedere? Un uomo vestito con abiti di lusso? Ecco, quelli che vestono abiti di lusso stanno nei palazzi dei re!”. Il Battista non ha cercato la compiacenza degli altri nell’esteriorità. Non era un cortigiano, non era una persona ossequente al potente di turno. - Ebbene, che cosa siete andati a vedere? Un profeta? Sì, io vi dico, anzi, più che un profeta. Egli è colui del quale sta scritto: Ecco, dinanzi a te io mando il mio messaggero, davanti a te egli preparerà la tua via. Egli è più che un profeta, è il precursore, colui che è stato inviato da Dio a preparare la strada per Gesù, il Messia; è il più importante tra i «nati da donna»: lui solo ha potuto indicare al mondo il Messia, che tutti i patriarchi e i profeti hanno anelato e preannunciato. Gesù identifica in lui il culmine di tutta la rivelazione dell’Antico Testamento. È grande quindi Giovanni, ma Gesù aggiunge: “Il più piccolo nel regno dei cieli è più grande di lui” per sottolineare lo stato ancora più eccelso di chi è entrato nella nuova era del regno di Dio. Gesù vuole affermare che chi diventa suo discepolo è come se varcasse una porta ed entrasse in un mondo nuovo: il mondo dei discepoli di Gesù. I tempi del regno trascendono totalmente quelli che lo hanno preceduto e preparato.

Giovanni rimane un profeta, il più grande dell’AT, ma ormai Gesù ha portato un modo nuovo di relazionarsi con il Padre, una salvezza che va al di là di ogni aspettativa.

Convertitevi

2° domenica di Avvento
Mt. 3,1-12.

La persona che ci introduce nel cuore dell’Avvento è Giovanni Battista. Egli per l’ evangelista Matteo, è colui che compie la profezia di Isaia:” Voce di uno che grida nel deserto. Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri” (Is. 40,3) Come tutti i profeti egli denuncia il peccato e annuncia il perdono di Dio. Ma rispetto ad essi ha una coscienza nuova. Sa che arriva colui che stanno aspettando. Questi ci battezzerà invece che nell'acqua della morte, nel fuoco del suo amore.

Il nome Giovanni significa "Dio fa grazia". Battista significa letteralmente "l' immergitore". Immerge l'uomo nella sua verità perché possa aprirsi alla verità di Dio.
Giovanni si presenta nel deserto. Per Israele il deserto è un luogo denso di significati. Si tratta del luogo del già e del non ancora: già fuori della schiavitù e non ancora nella libertà. E' il luogo del cammino e del dubbio, dell'ascolto e della ribellione, della fiducia e del peccato. E' anche il luogo dell'intimità con Dio, il tempo del fidanzamento, la promessa di un rifiorire dell'antico amore tra Dio e il suo popolo (Os 2,16-18). Egli invita urgentemente alla Conversione dicendo: «Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino!».

Convertirsi vuol dire,cambiare mentalità, cambiare direzione. Dio salva! E' necessario rivolgersi verso di Lui. L'uomo, che tende spesso a voltare le spalle a Dio, è chiamato a invertire il cammino, il suo modo di pensare e di agire. E’ difficile cambiare mentalità, ma il cambiamento di mentalità più difficile è quello religioso: cambiare il nostro modo di pensare Dio e di rapportarsi a Lui, passare da quello che pensiamo di Lui (spesso ci facciamo un Dio a nostra misura), al modo in cui Egli veramente è e si rivela. Perché questa urgenza? Perché il Regno dei cieli è vicino. Dio stesso viene a liberare l'uomo da ogni schiavitù, lo rende simile a se stesso, rendendolo figlio nel Figlio.

Come per il ritorno dall'esilio era stato fondamentalmente il perdono che Dio ha concesso a quanti avevano riconosciuto il proprio peccato, così anche a noi che attendiamo la venuta del Signore, e ad essa ci prepariamo in questo tempo di Avvento, è necessario riconoscere il nostro peccato e le nostre infedeltà, per accogliere Gesù che viene ad aprire per noi il Regno dei Cieli.

Gerusalemme, tutta la Giudea e tutta la zona lungo il Giordano accorrevano a lui
e si facevano battezzare da lui nel fiume Giordano, confessando i loro peccati.
L'acqua per gli Israeliti era simbolo del male e della morte. Immergersi nell'acqua significava entrare nella morte, riconoscersi mortali, riconoscersi peccatori. Il battesimo di Giovanni significava questa coscienza, ma anche il desiderio di venirne riscattati, attraverso la confessione dei peccati: unica condizione per accogliere il perdono che viene da Dio. Non basta però celebrare un rito se non è accompagnato da un sincero pentimento e dall’ascolto ubbidiente della Parola del Signore. Questo è uno dei rischi anche per noi. Non basta andare dal Battista, e neanche ricevere i sacramenti cristiani, se il cuore non è sinceramente deciso a cambiare mentalità, a cambiare strada. E la vera conversione non si limita alle belle parole ma si deve vedere nei fatti e nei comportamenti.

Fare un frutto degno della conversione, significa avere in noi gli stessi sentimenti di Cristo, accogliersi gli uni gli altri con cordialità e amore reciproco., fare della propria vita un dono. Sono i frutti dello Spirito Santo di cui ci parla l’Apostolo Paolo (Gal. 22) Vivere la vita nuova in Dio, in contrapposizione alle vecchie opere della carne (Gal.5,19-21).

In questo cammino di conversione non conta l'avere Abramo per padre. O meglio dobbiamo tutti diventare figli di Abramo imitando sempre più in profondità l'atteggiamento di Abramo che prima di tutto è nostro padre nella fede. I veri figli di Abramo sono coloro che, come lui, ascoltano la parola di Dio e ricevono la Sua benedizione tramite la fede (Gal 3,14). Non è possibile ottenere la salvezza in altro modo.
Giovanni ricorda che Dio può suscitare figli di Abramo dalle pietre. A Dio tutto è possibile: suscitare figli dalle pietre, come cambiare il nostro cuore di pietra in un cuore di figli (Ez 36,26).
Con la venuta del Regno dei cieli il mondo subirà un radicale cambiamento, diventerà un mondo più umano e più giusto, ma non può essere e non sarà l’uomo a produrlo: il Signore Dio stesso con la sua “ira imminente” porrà fine a un mondo corrotto e malato.

“Già la scure è alla radice dell’ albero.”
Il profeta intravede il giudizio di Dio e i segni del crollo delle antiche strutture del mondo. Il giudizio di Dio farà piazza pulita di ogni ingiustizia e anche di tutto ciò che la impedisce.
Il fare frutto o non farlo non è la stessa cosa. L'albero che non darà frutto verrà tagliato. L'allegoria della vite di Gv 15,6 ci aiuta a dare maggior luce a questo versetto. Il tralcio che dà frutto è quello che rimane legato alla vera vite, cioè Cristo stesso. Non si può essere legati a Lui senza dare frutto. Non si può dare frutto se non si ascolta la sua Parola.

Il Battista sa di non avere i mezzi e la forza di cambiare il mondo, Il Messia, di cui Giovanni è il precursore, agirà con la potenza dello Spirito simboleggiato dal fuoco. Egli viene dopo ma è più potente. Qual è il significato del battesimo in Spirito Santo e fuoco? Gesù ci immergerà non nell'acqua che è simbolo di morte, bensì nello Spirito Santo, che è il fuoco del suo amore, che tutto purifica, illumina e vivifica. E' il fuoco del Suo amore.

La missione di Giovanni è quella di indurci a confessare i nostri peccati, il nostro limite, la nostra incapacità di cambiare le cose. Se facciamo conto solo delle nostre forze, la nostra fatica rimane frustrata, la nostra volontà di potenza e la violenza che acceca i nostri cuori ci fanno ritenere di riuscire da soli…ma non ne siamo capaci…Giovanni ci spinge a guardare in alto e ad attendere il dono della salvezza, il Regno di Dio che viene con Gesù.

Egli Tiene in mano la pala e pulirà la sua aia e raccoglierà il suo frumento nel granaio, ma brucerà la paglia con un fuoco inestinguibile».
La mietitura è un concetto apocalittico che ritorna spesso nell'Antico e nel Nuovo Testamento. Rappresenta il momento del giudizio, il momento in cui Egli verrà a discernere le azioni compiute dagli uomini. Il fuoco dell'amore di Cristo viene a cogliere in tutti i suoi figli e le sue figlie tutti i frutti buoni e a bruciare ogni nostro male, per darci la sua vita. Ma cosa brucerà? La paglia, cioè quella parte del grano che non serve a niente, e la zizzania, ciò che non è frumento. Dove la brucerà? Sulla sua croce, con il fuoco del suo amore.

Per il cristiano è questo l’Avvento: uscire dal ripiegamento su noi stessi e guardare con fiducia e speranza a Dio misericordioso. Solo da Lui può venire la vita nuova, un mondo di giustizia e di pace e la nostra felicità.

Vigilate.

1a domenica di Avvento anno A – Mt. 24,37-44

Con il Vangelo della prima domenica di Avvento, la Chiesa ci propone uno dei cinque discorsi di Gesù, un “discorso escatologico” sulla sua prossima venuta, la parousìa. Questo termine sta a indicare la venuta di Gesù alla fine dei tempi, per instaurare il Regno di Dio. Gesù afferma più volte che nessuno conosce il “giorno” e l’“ora” (24,36; 25,13). Il messaggio è chiaro: la venuta del Signore è imprevedibile, di qui la necessità della vigilanza indicata dal verbo “vegliate”.

Il ritorno di Gesù alla fine dei tempi è una gioia, ma anche un invito a impegnarsi seriamente, lasciando a margine le cose secondarie e preparando il suo arrivo. Come furono i giorni di Noè, così sarà la venuta del Figlio dell'uomo. Infatti, come nei giorni che precedettero il diluvio mangiavano e bevevano, […] e non si accorsero di nulla finché venne il diluvio e travolse tutti: "così sarà anche la venuta del Figlio dell'uomo." In questi versetti, Gesù risponde a coloro che trovano sicurezza nella vita materiale, e rifacendosi alla Sacra Scrittura cita la generazione di Noé, ai tempi del diluvio, che passò alla storia come la più corrotta di tutte. Con questo paragone Gesù ci parla di persone che hanno trascurato la relazione con Dio, lasciandosi assorbire totalmente dai bisogni fisici, dalle cose materiali. Sono persone che hanno riposto la propria sicurezza in se stessi.

Anche oggi, in qualche modo, succede la stessa cosa: viviamo una certa sicurezza di noi stessi, cerchiamo sicurezza nel nostro sapere, nei beni che abbiamo, nella tecnologia, nella scienza.
Allora due uomini saranno nel campo: uno verrà portato via e l'altro lasciato. Due donne macineranno alla mola: una verrà portata via e l'altra lasciata.
•i due uomini nel campo e le due donne alla mola fanno le stesse cose, non c’è distinzione da un punto di vista materiale, all’apparenza sono uguali;
•ma c’è una differenza nel loro cuore, nel loro atteggiamento verso Dio, per questo uno sarà preso e l’altro lasciato. Sarà preso, cioè riceverà la salvezza, chi l’ha sempre accolta nella propria vita; sarà lasciato, cioè non riceverà la salvezza, chi ha condotto una vita senza senso.
In questi personaggi possiamo cogliere i due atteggiamenti fondamentali che possiamo assumere nella nostra vita:
•contare su noi stessi, lavorare da soli, essere addormentati interiormente;
•contare su Dio, attendere la sua venuta, lavorare insieme con Dio, essere vigilanti.
Sono modi diversi di vivere la vita. Il discepolo deve imparare a riporre la propria fiducia nel Signore, gettando nel Signore il suo affanno, le sue preoccupazioni, come afferma S. Pietro in una delle sue lettere: “Umiliatevi dunque sotto la potente mano di Dio, affinché egli vi innalzi a suo tempo, gettando su di lui ogni vostra preoccupazione, perché egli ha cura di voi” (1Pt 5,6-7).

Vegliate dunque, perché non sapete in quale giorno il Signore vostro verrà. Questo invito nelle pagine del Vangelo lo troviamo più volte in bocca a Gesù.
Vigilare significa, non starsene barricati, sicuri, ma assumersi ogni giorno le proprie responsabilità, affrontare gli avvenimenti della vita. È un mettersi continuamente alla presenza del Signore. Essere vigilanti significa spezzare l’indifferenza, l’inerzia, la distrazione.
 San Paolo nella lettera ai Romani dice: “È ormai tempo di svegliarvi dal sonno, perché adesso la nostra salvezza è più vicina di quando diventammo credenti” (Rm 13,11).
 Chi “dorme” nella vita di tutti i giorni non riesce a cogliere la presenza di Dio negli avvenimenti e nelle persone che incontra.
Chi è sveglio, invece, sta in piedi nella vita di tutti i giorni, perché capace di stare alla presenza di Dio. Essere svegli significa:
• essere sempre pronti a capire quanto sta avvenendo
• non diventare indifferenti a tutto, non adagiarci in un quieto vivere
• cercare di fare del bene, finché siamo in tempo: il tempo per amare è oggi, non domani.
"Cercate di capire questo: se il padrone di casa sapesse a quale ora della notte viene il ladro, veglierebbe e non si lascerebbe scassinare la casa." L’insistenza di Gesù “cercate di capire”, ci fa pensare quanto Gesù ha a cuore la nostra sorte.
Gesù ci stimola a metterci in ricerca interiore, senza aspettare gli eventi della vita che ci mettono a dura prova (descritti qui con il ladro). L'incertezza dell'ora non deve farci dimenticare che quell’ora verrà. Nell’attesa di quel momento dobbiamo custodire i doni che abbiamo, coltivarli, lasciarli crescere e proteggerli.

"Perciò anche voi tenetevi pronti perché, nell'ora che non immaginate, viene il Figlio dell'uomo."
Per rafforzare quanto detto prima, Gesù dice che il Figlio dell’uomo verrà nel momento in cui non si pensa. Dio viene quando meno ce lo aspettiamo. Occorre, perciò, tenersi pronti:
 vivere ogni istante della vita come fosse prezioso, come se fosse il solo a disposizione
 non perdere le occasioni per fare il bene, essere disponibili alla carità fraterna
 riconoscere gli avvertimenti che vengono dai segni attorno a noi.

La Parola illumina la vita e la interpella:
• Come leggo, alla luce del brano evangelico, la realtà che mi circonda?
• Come mi guardo attorno, dentro il mio cuore, per rivedere le mie scelte, il mio stile di vita alla luce della Parola di Dio?
Sono vigilante, vivendo ogni frammento di vita come fosse prezioso, il solo a disposizione?