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Genitori nella fede della chiesa

 

Ecco un secondo breve cammino, pensato, a modo di un dialogo, con coloro che si trovano, letteralmente si scoprono genitori. Già, perché si tratta di una vera e propria scoperta. Certo essi hanno deciso di rendersi disponibili ad accogliere figli, ma la nascita di un figlio, il trovarselo tra le mani e nella vita è un avvenimento sconvolgente.

1.

Da dove partire? Crediamo che come spesso, così anche in questo caso la partenza sia una ripartenza. Ora bisogna ripartire dal matrimonio, il quale, nel suo essenziale disegno, comporta quella disponibilità tanto spontanea quanto trepidante. L’accoglienza del coniuge nel progetto della propria vita crea lo spazio per l’accoglienza di figli, lo duplica, in una libertà più semplice e più complessa. Più semplice perché il figlio viene tanto piccolo da non poter reggere il confronto con un adulto; più complessa perché il mistero, già saldamente presente nell’apparizione del coniuge, è ancor più profondo nel caso di un figlio: del quale si ignora tutto. Salvo tuttavia la cosa principale, cioè che egli viene dal matrimonio, da coloro che diventano padre e madre non solo perché generano, ma anzitutto perché si scambiano il dono di riconoscersi e accogliersi come persone uniche e insostituibili. Diventare padre e madre non è solo un avvenimento per così dire a valle, che riguarda solo il figlio che viene concepito, ma a monte, che riguarda gli sposi che vengono resi generanti. Una nuova identità, quella del figlio, modifica anche l’identità di coloro che attraverso il figlio diventano genitori. E questo è un dono grandissimo offerto dal piccolissimo bambino: spetta solo a lui dare quel titolo. Così si comprende la gratificazione dei genitori nel sentirsi chiamare, ossia identificare: mamma! papà! La modificazione non è una negazione o anche solo una diminuzione del matrimonio, anzi, ne è una conferma straordinaria: l’indissolubilità del matrimonio come vincolo interpersonale diventa, attraverso l’una sola carne (cfr. Matteo 19,6), una vita sola: quella del figlio. Chi potrà sciogliere il legame dello sposo e della sposa nel corpo e nella vita del figlio che è stato da essi generato? E come si potrà negare fedeltà a quel figlio che è il permanente segno vivente del rapporto fedele tra marito e moglie? C’è tutta la sostanza del matrimonio nella generazione dei figlio: nulla viene lasciato indietro, anzi tutto viene ripreso e rilanciato.
Certamente capita che i figli vengano generati anche al di fuori del matrimonio, non solo della celebrazione del matrimonio, ma anche di una positiva volontà di essere o diventare sposo e sposa. Ciò non impedisce ai genitori di sentire come un richiamo alla loro propria condizione, per il semplice fatto che l’accoglienza di un figlio investe direttamente l’identità dei generanti: non solo lui, il piccolo, ma anche loro sono investiti. Si tratta ora di configurare questa chiamata, riconoscendo fino in fondo che generare non significa prima di tutto ‘fare’ un figlio, qualcuno che è là, fuori ormai di noi, ma essere identificati da lui, da lui visti e riconosciuti: come padre e madre, come sposo e sposa. Con la semplice verità di cui un bambino è capace, egli incrocia le due relazioni portandole a unità, e invitando i suoi genitori a identificare se stessi: per lui e per sé, senza scorporare ciò che gli adulti sono per lui da ciò che essi vogliono essere per se stessi. La verità della vita chiama alla semplicità della intenzione, e l’unità del figlio invita all’unità dei genitori.

2.

Certo l’avvio non si prende dalla nascita, ma dalla annunciazione, quella parola che, a seguito della disponibilità dei coniugi, interpreta il corpo della madre e lo trasforma in un avvenimento di gioia: sono incinta. Abbracciata dal marito, la moglie rimane incinta, o, come si usa dire, in stato interessante; il suo stato è: madre. L’avvenimento atteso ora si realizza: è finita una prima attesa, anche se ne inizia una seconda, e anzi ben più che una seconda. È finita l’attesa in quanto ormai si vive nella presenza, nascosta ancora ma verissima, e poi progressivamente visibile, del figlio, in un primo tempo visibile solo attraverso la madre. La prima attesa assomiglia a quella tipica dell’antico testamento, che spera vedendo nel futuro. La seconda assomiglia a quella del nuovo testamento, che spera il futuro vedendo il presente; il presente non elimina il mistero, riscalda il cuore facendolo sentire lì, memtre a sua volta apre una storia imprevedibile: quella del figlio. Ebbene questa storia deve essere appresa dai genitori: essi la apprenderanno accompagnando il figlio. La speranza neotestamentaria è dunque la virtù dei genitori. Perciò la loro domanda è quella che circonda la nascita di Giovanni Battista: che sarà mai questo bambino? (cfr. Luca 1,66). 
Gioia, sorpresa, ma anche preoccupazione, forse ansia: immediatamente per la salute del bambino, talora anche della madre; certo ognuno, cosciente dei rischi connessi a processi vitali tanto radicali, cerca protezione e aiuto. L’avvenimento capitale della vita, il concepimento e la nascita, è quello in cui si comincia a giocare tutto: vita e morte. La madre fa esperienza del dolore (non dimenticare i dolori di tua madre: Siracide 7,27), per il figlio si teme qualche malattia. Grazie anche alla moderna medicina molti problemi sono stati superati, ma non ogni rischio può essere eliminato. E comunque diventare genitori significa inoltrarsi in un percorso le cui tappe sono ignote. Non viene meno in alcun modo la speranza, sempre attizzata dalle promesse che la vita insinua nel cuore dei genitori: ma alle prove bisogna essere pronti. Del resto esse vengono sempre dopo quell’annuncio che immerge in una benedizione: «ho acquistato un uomo dal Signore» (Genesi 4,1) è la prima interpretazione del concepimento da parte di Eva. Prima viene la gioia col suo dono, poi talora viene la prova col suo impegno: la prima sostiene il secondo. Capita insomma qualcosa di simile al matrimonio: la persona che ti ha fatto innamorare e che hai sposato è quella che ora ha bisogno di te. Se rifiuti la prova derivante dalla sofferenza rifiuti l’amore; infatti la scelta più vera non è tra felicità e infelicità, ma tra amore e infelicità.  

3.

«La donna, quando partorisce, è afflitta, perché è giunta la sua ora; ma quando ha dato alla luce il bambino, non si ricorda più dell’afflizione, per la gioia che è venuto al mondo un uomo» (Giovanni, 16, 21): così si esprime Gesù con estrema sensibilità di lettura dell’esperienza di una madre. Viene dunque il giorno del parto dal punto di vista della madre generante, il giorno della nascita o natale per il figlio generato: quando la madre diventa una tondezza meravigliosa, il figlio viene alla luce, viene dato alla luce (si noti che nella tradizione della chiesa il battesimo è spesso chiamato ‘illuminazione’). Il primo traguardo della vita, quello che in un certo senso li contiene e anticipa tutti (in Apocalisse 12, 13-18 il parto della donna diventa simbolo addirittura della risurrezione di Cristo dai morti), è la luce vista, la vista aperta dalla luce. Ora la prima luce della vita di un figlio non è propriamente quella cosmica o fisica, ma quella che viene riflessa negli occhi umani; la prima luce è lo sguardo materno. Nascere è essenzialmente essere visti, ancor più essere accolti, anzitutto da quelle persone che più di tutte le altre hanno desiderato di vedere quell’essere umano. Essendo guardato, il figlio si apre alla luce, e, una volta illuminato, a sua volta vedrà: la luce della vita diventerà sua. Lo stesso vale per la parola. Egli viene continuamente chiamato, invocato, interloquito: le parole con le quali viene chiamato sono quelle che gli daranno a sua volta la parola. Il linguaggio materno della vocazione con cui si è chiamati alla vita diventa il linguaggio filiale con cui il figlio a sua volta chiama, non solo i genitori, ma progressivamente il mondo intero (il linguaggio infatti è anzitutto ‘lingua materna’). La luce e la parola portano il figlio nel mondo, attribuendogli quel carattere di giardino (con il nome della bibbia è il paradiso, nel quale Dio ha creato e posto uomini e donne) nel quale si vive a proprio agio, nel quale il mondo diventa per il bambino casa accogliente. 
Di tutto questo è segno stabile il nome: solo piuttosto avanti nel tempo il figlio identificherà se stesso con quel nome, col quale egli invece viene chiamato molto prima di intenderlo. Sia il nome che ricorda qualche familiare che ha già preso congedo dal mondo, sia il nome di qualche personaggio della storia biblica o della santità ecclesiale, il nome collega ad una tradizione che viene consegnata al figlio quasi come un’eredità della quale egli potrà giovarsi quando sarà in grado di apprezzarla; così i cristiani festeggiano volentieri l’onomastico, il giorno della festa del nome che essi portano. Perciò tanto spesso nella storia biblica sono proprio Dio e Gesù a dare il nome; e quando il sacerdote accoglie nella comunità il piccolo per la celebrazione del Battesimo, subito chiede ai genitori: che nome date al vostro bambino? Bisogna dunque essere visti per vedere, essere chiamati per parlare, essere nominati per avere identità. Ecco la nascita è un avvenimento per definizione familiare, anzi collettivo. La festa che la circonda lo testimonia: i parenti, i vicini, la stessa comunità civile che registra il bambino, riconoscendolo come suo membro di diritto. E la madre dimentica subito il dolore, per la gioia che è nato un uomo, un avvenimento tanto grande che non cessa mai di meravigliare. 

4.

Questa gioia è tanto grande che i genitori, non solo la madre, abbisognano di tempo per appropriarsene. Si aprono all’esperienza dei genitori, e attraverso questa a molte altre esperienze, importanti per crescere come persone. La prima è circoscritta dalle espressioni mio figlio – nostro figlio: veramente mio, veramente nostro. Mentre un genitore afferma quel mio, deve intendere anche un non solo mio, ma anche del coniuge; gli è sottratta l’esclusività della generazione, la solitudine di un rapporto esclusivo. Questo è il motivo per cui dietro il rifiuto di un figlio, come in modo terribile avviene nella interruzione volontaria della gravidanza, si può leggere anche, e forse più originariamente, il rifiuto del coniuge, o del partner come coniuge. Dunque il rapporto dei genitori al figlio è assai complesso, e addirittura descrive uno spazio relazionale nel quale si disegna il profilo della libertà del figlio. Infatti la libertà del figlio è affidata proprio al fatto che i genitori siano due, cioè allo spazio aperto tra di essi; ciò permette al figlio di inserirsi in un gioco già giocato, in una relazione già ben fondata, e pertanto di trovare predisposto l’ambiente per diventare se stesso: la buona relazione dei genitori gli garantisce la capacità di avere buone relazioni e così di costruire la propria identità. In questo senso è assai problematica anche dal punto di vista del figlio la figura del monogenitore. Nel frattempo i genitori imparano (letteralmente!) a sciogliere il sentimento di possesso del figlio, essi apprendono la sua indisponibilità, annunciata nel fatto che nessuno di loro può dire mio senza dire insieme nostro, cioè senza integrare l’alterità. 
Più semplicemente i genitori si avvicinano a questa esperienza per il semplice fatto che essi devono partire da zero: non conoscono colui che certo è loro figlio. Essi non sanno da dove venga, o, con parole poco diverse, essi si scoprono impacciati e inadeguati nel portare al mondo un figlio. Da dove dunque viene un figlio, che ora è tra le nostre mani, nella nostra storia di coppia, nella nostra conoscenza, mentre solo qualche mese fa nulla era vero di tutto ciò che ora è verissimo? Nelle relazioni disegnate tra mio e nostro, ignoto e noto, si staglia in controluce la figura sorprendente del Creatore: colui che semplicemente fa esistere; colui che nelle viscere materne tesse l’essere umano a modo di un meraviglioso tappeto (cfr. Salmo 139); colui che alla domanda «che cosa è l’uomo perché te ne ricordi e il figlio dell’uomo perché te ne curi?» risponde: «l’hai fatto poco meno degli angeli, di gloria e di onore lo hai coronato» (Salmo 8); colui che fa esistere per amore; colui che rende genitori questo uomo e questa donna. Dio non sostituisce (come nei miti antichi) né strumentalizza (come nello spiritualismo moderno) i genitori, ma con la buona parola della creazione rende i genitori capaci di accogliere quel figlio che nel loro atto sponsale generativo viene da Dio stesso donato. Del resto non dobbiamo dimenticare che Dio stesso conosce perfettamente l’esperienza generativa, della quale anzi è la fonte stessa, poiché egli è l’eterno Padre del Signore Gesù Cristo, ed è Dio proprio perché Padre di Gesù. Essendo tale Padre, egli da concretezza ad ogni paternità (e maternità) («da Dio Padre prende nome ogni paternità nei cieli e sulla terra» Efesini 3,14). Pertanto nel figlio generato i genitori scoprono il carattere trascendente di ogni persona umana, il suo venire dall’alto, non solo dal sangue e dalla carne. In questo senso l’unico modo di generare un figlio è accoglierlo: i figli non si ‘fanno’. Questa è la verità universale del dono invece singolarissimo per il quale Maria di Nazaret concepisce il suo figlio Gesù per la grazia dello Spirito Santo. Con parole semplici si può dire l’esperienza genitoriale affermando che i genitori, pure tanto più grandi dei loro figli, tuttavia sono anche più piccoli dei loro piccolissimi figli: impari al compito della generazione di un essere umano. Ogni figlio sporge dai genitori, li supera ontologicamente. Da qui deriva il carattere superfamiliare del figlio, e anche quello superpolitico: i figli non sono proprietà della famiglia, né dello stato, né della società: essi si appartengono, verticalmente, in Dio. E il cristianesimo non può che proclamare l’indisponibilità del figlio ai genitori come conseguenza diretta dell’indisponibilità dell’uomo da parte di qualunque altro. Questa la radice culturale del rifiuto sempre opposto dai cristiani all’interruzione volontaria della gravidanza. In nessun momento i figli sono proprietà: né dei genitori, né di alcun altro.
E per fugare ogni dubbio, nemmeno di Dio i cristiani pensano che egli possieda un tale diritto al modo di un indiscutibile arbitrio di vita o di morte: egli non è il despota della sua creatura, pure finita, ma colui che dà la vita. Ciò è indirettamente espresso, e molto bene, nella professione di fede battesimale: affido la mia vita a Dio Padre onnipotente, creatore sì del cielo e della terra, ma assai più propriamente degli uomini, e rigorosamente di me marito e di me moglie, di nostro figlio e di nostra figlia; affido la mia vita a Gesù Cristo, generato eternamente da Dio e concepito nel tempo da Maria, un dono supremo, da accogliere con fede, analogamente al modo in cui noi genitori dobbiamo accogliere il nostro figlio, che viene da oltre noi; affido la mia vita allo Spirito Santo, che è Signore e dà la vita, la vita divina che rigenera quella umana, cosicché lo Spirito di Dio, che santifica, è la garanzia propria dell’avventura umana nostra e del nostro figlio, dal tempo all’eternità. 

5.

Con ciò è introdotta un’altra riflessione importante per l’esperienza del diventare genitori. Il lettore avrà notato che fino a questo punto abbiamo parlato poco, anzi quasi per niente, di bambino, e quasi sempre di figlio. Forse che figlio non è necessariamente sinonimo di bambino, almeno per non brevi anni? Evidentemente suggeriamo la distinzione per indicare che mentre essere bambino è solo una fase, che sappiamo del tutto significativa (vedi al punto 8.) e che deve essere raccolta ma superata nella maturità, figlio invece dice l’intera vicenda umana, anzi la verità dell’essere umano. L’uomo è essenzialmente figlio, transitoriamente bambino. Figlio di e di non indica solo la derivazione sempre più lontana nel tempo, ma l’identità per la quale egli non è da sé e porta in sé altri, incorporandoli nella propria vicenda. L’incorporazione principale non è quella riduttivamente biologica, psicologica, o anche valoriale; è invece anzitutto quella totale, personale, di essere umano. Figlio significa uomo, significa persona, è il modo storico (di nuovo tipicamente umano, corporeo e relazionale) di dire la dignità di ogni singolo uomo. Solo gli uomini sono figli, e perciò solo gli esseri umani generano figli. Forse è precisamente questo il motivo per cui Gesù spesso indica se stesso quale ‘il figlio dell’uomo’. Il senso ebraico dell’espressione, che tende a identificare figlio dell’uomo e uomo è molto istruttiva, poiché indica la direzione permanente nella quale cercare l’uomo, quella di figlio. È forse questa la base generica che permette all’espressione, una volta sulla bocca di Gesù (cfr. ad esempio Luca 5,24; 17,22), di far lievitare il suo significato fino ad indicare la sua umanità fino alla passione, ma anche il potere maiestatico di quel figlio dell’uomo, che viene rivelato alla fine dei tempi? E non si sente ormai vicina l’espressione della fede cristiana secondo la quale Gesù figlio dell’uomo trascende l’umanità, essendo personalmente il Figlio di Dio? Certo vi sono anche stacchi decisivi nel senso analogo del termine, ma la figliolanza come elezione storica diretta di una singola persona non viene mai smentita nella storia di Gesù, invece sempre assunta e arricchita. Così ben presto si parla dei credenti come figli adottivi di Dio per mezzo di Gesù (cfr. Galati 4,1-7). L’uomo dunque è sempre figlio, e nella filiazione è chiamato a crescere: in tale crescita l’uomo diventa anche padre e madre, cresce cioè nella sua qualità intrinseca di essere umano, proprio grazie al figlio. Per questo ogni uomo celibe e ogni donna anche vergine, come anche gli sposi che, pur rendendosi disponibili, non hanno generato figli, custodiscono un profondo senso di paternità e maternità. Lo stesso Gesù, quando si congeda dai discepoli, che per il momento non possono seguirlo sulla via della croce, li chiama ‘figlioletti’ (Giovanni 13, 33), identificandosi così come loro padre. Insomma nella figliolanza si può e si deve crescere, dalla figliolanza non ci si può e non ci si deve congedare. Essere figli non è un passato dal quale liberarsi, ma un futuro da costruire. Quale messaggio di grazia è contenuto nel figlio che rappresenta al vivo tutto questo, e che così distribuisce doni a primi vista impensabili! 

6.

Il figlio cresce, deve crescere: quasi ogni giorno il suo mondo si allarga, la sua sensibilità raccoglie ed elabora. Nel frattempo padre e madre, sorpresi da una trasformazione tanto veloce quanto ricca, si trovano immersi nel compito educativo. Se in una prima fase affetto e attenzione sono sufficienti, rapidamente i genitori si interrogano sulle scelte educative secondo le quali orientare dal profondo la sensibilità e la volontà del figlio. Addirittura oggi i genitori sono quasi spaventati di fronte all’inatteso ‘potere’, un potere di cui talora non vorrebbero disporre e che scotta tra le loro mani, di operare scelte decisive per il loro figlio. La tentazione di sottrarsi o di scaricare il compito a questo punto si fa forte (nei casi estremi può assomigliare a una specie di aborto ritardato), ed ha almeno tre facce.
 La prima è di concentrare l’educazione sull’insegnamento di alcune o molte abilità. Il figlio è piccolo, è come una tabula rasa, è anche desideroso di sapere e di vedere, di impadronirsi di un mondo di destrezze, e spesso lo fa facilmente. I genitori diventano allora – passi il termine – gli istruttori del figlio, personaggi che esaurita la loro breve funzione ritornano nell’ombra. Anzi a ben vedere non escono neppure allo scoperto, restano celati dietro la trasmissione di capacità o dietro la dialettica con la quale gli adulti procrastinano e infine evitano le scelte. Così il vero gioco della vita viene eluso sia dai genitori, sia dal figlio, che velocemente si trova adulto nel senso che è capace di gestire se stesso. Rimane invece intatta la grande domanda: la maturità è forse riducibile alla capacità di autogestione (finanziata quasi sempre dai genitori)?
 La seconda è demandare il compito educativo a dei professionisti, figure preparate e specializzate che intervengono a intermittenza nella vita del figlio altrui, e che per la loro neutralità professionale mantengono una buona distanza emotiva; essi non forgiano l’animo del figlio, gli forniscono piuttosto strumenti per analizzare e conoscere parti di se stesso, parti che tuttavia non comprendono mai quella che offre una risposta alle domande: chi vuoi essere? Che cosa vuoi fare? I genitori ottengono così, per ricorrere ad un esempio, qualcosa come una igiene preventiva, mentre resta inevasa la domanda sulla salute effettiva. Sulla questione centrale gli esperti si ritirano, poiché essa esula per definizione dalla loro competenza; in assenza di un confronto interpersonale profondo il figlio finisce per non conoscere bene il proprio mondo affettivo, né quello altrui. Esso gli appare muto, irrazionale, privo di una logica vitale profonda, un guazzabuglio di emozioni delle quali non ci si può fidare, anche se da adolescente proprio ad esse si abbandonerà, più per trascinamento che per convinzione.
 La terza è affidare l’educazione ai processi di socializzazione, ossia a quella somma di incontri che attraverso la scuola, gli sports, le festine, le gare, gli spettacoli, ecc. portano il figlio ‘in società’. I genitori spesso sono dominati dalla paura (talora una vera e propria fobia) che il proprio figlio sia emarginato o diverso dagli altri, ai quali invece dovrebbe il più possibile essere assimilato. L’educazione tende così alla omologazione sociale, un compito a ben vedere ingrato e spesso contraddittorio in una società in cui i modelli di comportamento e di orientamento della vita sono diversi e irriducibili. I genitori ora assumono il ruolo della raccolta delle occasioni, della loro calendarizzazione, più fitta possibile, in modo che al figlio sia evitata la tanto temuta solitudine; con la solitudine  viene drammaticamente identificata la stessa vita di famiglia, la quale perciò tanto facilmente conduce davanti a uno schermo. Di conseguenza, quando manchino le occasioni esterne il figlio intristisce, mentre aumenta la tendenza, fatale nell’adolescenza, a comprare occasioni, ignorando e anzi spesso cancellando quelle che invece sono a portata di mano (vicinato, parenti, crescente capacità di iniziativa, gusto dell’impegno, fedeltà alle amicizie, ecc.), ma che diventano invisibili perché per essere apprezzate richiedono un atteggiamento diverso, ossia che genitori e figli siano attenti a quella vita quotidiana di cui la famiglia ha scarso sentore.
 Nei tre casi comune è il distacco che si consuma tra i genitori e il figlio: i primi pensano che il figlio, uno volta ben attrezzato, farà, anzi dovrà ‘fare quello che vuole’: essere grandi significherebbe proprio questo. Ora l’equivoco diventa vistoso: spezzata l’educazione nei due tronconi di abilità (curate) e convinzioni ed esperienze (non educate), il figlio, divenuto autonomo nel senso della gestione organizzativa della propria vita (tempo, orari, appuntamenti, denaro, ecc.), risulta goffo o anche incapace di affrontare la domanda principale: scontato che faccio quello voglio, come posso conoscere ciò che voglio? A questa importantissima domanda si danno le più improbabili risposte, esclusa quella giusta: ossia che posso conoscere ciò che voglio solo costruendo pazientemente, e che posso costruire pazientemente solo volendo creativamente (e non solo scegliendo ciò che altri hanno già preparato), e che posso volere solo educando selettivamente i miei desideri e impegnandomi attivamente.
 Ma come possono intervenire i genitori in questo campo tanto delicato? Non si ripresenta il sospetto di una educazione autoritaria? E non viene così violata la libertà, la personalità del bambino? Che si possa evitare il dilemma, evidentemente falso, lo intuiamo dall’esperienza immediata: in pratica i genitori, anche quando affermano di non intervenire programmaticamente in modo diretto nella vita dei figli, interferiscono tuttavia in mille modi, insediando le loro figure, le loro reazioni e le loro scelte nel più profondo della psiche dei figli (come gli psicologi, oltre che l’esperienza, ci ricordano). Detto in breve: ai genitori non è concesso di non intervenire nella vita dei figli, o di intervenire solo ‘chirurgicamente’: essi sono presenti e attivi a tutto campo; possono invece scegliere come intervenire. E qui sta il punto.
 Infatti quella frattura di cui si è appena parlato si produce nella educazione dei figli in quanto si è già prodotta nella vita dei genitori. Sono questi che hanno rinchiuso in un recondito angolo della coscienza le loro convinzioni più profonde, o forse le loro indecisioni più profonde. Così se si tratta di convinzioni succede che non risultino vitali, ma ininfluenti, pallide, esangui: come spesso avviene col discorso dei valori, ridotti a declamazione stantia; se si tratta di indecisioni accade che risultino bloccanti, e alle fine poco sincere, poiché alla fine appunto si vive, cioè si decide. Ecco l’educazione del figlio è una grande provocazione per i genitori, che, non potendosi nascondere al proprio figlio, proprio come il figlio alla fine non riesce a nascondersi ai genitori, sono riportati, spesso implicitamente, alle grandi domande della vita degli adulti. L’educazione mette in gioco anzitutto i genitori: il figlio per così dire li stana.  Maturità, profondità, coerenza sono gli esami ai quali i figli sottopongono i genitori. Anche se la bocca dei genitori in quel momento resta chiusa, anche se in quell’occasione la loro parola devia la risposta, tutto il resto parla, tutta la loro vita svela. E il figlio è sempre lì, non per spiare, non per controllare, ma finalmente per imparare a vivere: e da chi, se non da coloro che gli hanno dato la vita? Insomma l’unico modo in cui i genitori possono non dimettere i figli o scansarsi da loro è quello di non scansarsi da se stessi. L’educazione non è un prodotto, ma un’azione; e come in ogni azione anche nell’educazione decisivi sono gli agenti: solo essi sono visibili, udibili, giudicabili. Questi è il figlio. Con parole appena diverse si può dire che la via maestra dell’educazione è l’empatia, il sentire comune che lega nel pensiero, nel giudizio, nell’emozione, nell’attenzione, nell’azione genitori e figli.
 Certamente a questo punto qualche genitore può interrogarsi smarrito: chi mai può dirsi pronto ad assumere un tale compito? E in concreto siamo noi due capaci e idonei? Certo l’ ‘impreparazione’ è in un certo senso inevitabile: il figlio non è preventivabile, né programmabile (ora appare la limitata razionalità del discorso della ‘programmazione del figlio: programmata la nascita, tutto il resto della vita del figlio chi e come si programma?). Tuttavia ciò non condanna i genitori all’improvvisazione, trasformando l’educazione in un bricolage di tentativi, né meno che mai alla sfiducia nelle risorse che una famiglia, proprio perché tale, possiede e rigenera al proprio interno. Ecco qualche breve suggerimento.
 Il primo passo è piuttosto facile da descrivere e riguarda il riconoscimento dei limiti e delle immaturità che anche i genitori, in misura più o meno leggera, portano con sé. Qualche esempio: il rifiuto di staccarsi definitivamente dalla giovinezza (e dai suoi miti); la difficoltà nell’assunzione di una responsabilità e compagnia stabile e non intermittente con il figlio (egli è sempre con noi, e irrompe continuamente nella nostra vita); il timore di dover rinunciare provvisoriamente o definitivamente a un avanzamento professionale o a un miglioramento economico; il trauma di un progressivo distacco del figlio che sempre più alterna dipendenza affettiva e confronto critico coi genitori; la reazione a fronte di un tempo libero e di spazi privati sempre più ridotti, ecc. Certo diventare genitori è un grande dono nel cammino di una maturazione personale e di coppia, ma una grazia a caro prezzo.
 Un secondo aiuto assai grande viene proprio dal figlio. Egli è piccolo, è incredibilmente ben disposto verso gli affetti e le scelte dei genitori, indica ad essi la direzione in cui muoversi, i gesti da compiere, le situazioni da evitare. Ora il bambino educa i suoi genitori, facilita ad essi il compito, dando loro il tempo necessario per la maturazione genitoriale. Giorno dopo giorno, anno dopo anno genitori e figlio crescono insieme, si conoscono e si forgiano a vicenda, dal profondo delle emozioni immediate fino al gusto e al senso stesso del mondo e della vita. Pur mantenendo la giusta distanza generazionale, genitori e figlio hanno il tempo giusto per diventare fino in fondo ciò che sono chiamati ad essere; non solo essi si concedono tale tempo, ma creano anche le occasioni per tale crescita. Ogni giorno ne offre molte: dall’incontro con altre persone e famiglie alle prime esperienze scolastiche, dall’ospitalità degli amici al gioco e al senso di festa che i bambini e i ragazzi con stupefacente facilità sanno creare, dal ritmo disteso quasi atemporale delle loro occupazioni fino alle loro domande che sotto l’apparenza del rimando fino all’assurdo e all’infinito (molto presto il bambino impara a giocare e a pensare con gli infiniti perché) celano la scoperta dell’insolubile domanda metafisica del mondo e dell’uomo. Ecco ora il figlio traccia la via, e i genitori la seguono: è una traccia, non un programma, e ogni traccia esige attenzione e intelligenza interpretativa. Ma questa è la vera arte dei genitori (e di altre figure che ad essi si affiancano progressivamente), che accetta anche di non poter sempre comprendere tutto, e sa anche fermarsi per scoprire, cammin facendo, l’orientamento che il figlio dà alla propria vita; che accetta anche sconfitte e incomprensioni, senza concludere a una disastrosa bancarotta. Il mito della onnipotenza va rifiutato decisamente sia nella relazione sponsale sia nella educazione dei figli: ad esso corrisponde la diserzione educativa; la compagnia fedele corrisponde invece alla correzione paziente, all’intervento intelligente e costante, all’accettazione di quella sofferenza che prima o poi è parte integrante dell’impegno educativo (del cammino di crescita di ogni ragazzo). Del resto la correzione del figlio, tanto raccomandata dalla sapienza biblica (cfr. ad esempio Proverbi 13,24; 19,18; 29,17), non è forse una co-reggenza, una direzione comune verso un punto di incontro? Possiamo anche ricordare l’atteggiamento meditativo della madre del Signore («Maria da parte sua serbava tutte queste cose meditandole nel suo cuore» Luca 2,19), e anzi il loro smarrimento di fronte alle scelte di Gesù affacciato sull’età adulta: Maria e Giuseppe «non compresero le sue parole» (Luca 2,50).
 Proprio questa prospettiva permette di non lasciarsi bloccare nell’alternativa tra punizione e indulgenza, tra reazione isterica e cedimento. Questa non è mai una buona alternativa, soprattutto perché impedisce pregiudizialmente di cercare e creare altre vie di intervento e di presenza; la verità è che le vie sono molte, ma non sono già pronte: spesso anzi vanno aperte, come i sentieri di alta montagna. Tra le vie si colloca anche una giusta e serena severità, mirata non all’umiliazione plateale del figlio, ma alla crescita nella responsabilità. Ciò suppone che i genitori sappiano sopportare quelle tensioni che sono proprie di un processo di crescita, e che non si lascino abbindolare dalla scelta tra affetto (che si teme di perdere) ed educazione (che si stenta a dare). La fede è necessaria ai genitori per credere che la loro opera mostrerà la sua bontà sul tempo lungo: cosa che del resto si ode spesso riconoscere nei discorsi familiari, quando i figli ormai adulti sono più liberi e disposti a riconoscere la buona educazione ricevuta. L’educazione non avviene in un parco delle fantasie, ma in una realtà dura, dura anche per il figlio, che deve imparare a riconoscere e rifiutare il male, la banalità e la volgarità.
 A questo proposito è impossibile non dire una parola sulla società, spesso avvertita dai genitori come una forza incontrollabile. E certo c’è di che temere. La forza della società è ambigua: i genitori devono sperimentare su se stessi, sul loro stile di vita, nelle loro scelte di saper resistere al fascino degli oggetti, delle occasioni, dei pregiudizi con i quali di fatto la società si propone. Una volta ben esercitati essi trasmettono fin da molto presto un sano senso critico al figlio. Ma ciò è conseguenza di una scelta più importante: quella di impegnarsi ad essere una famiglia con una propria fisionomia, un proprio indirizzo, una propria tradizione di esperienze e di relazioni, di frequentazione di ambienti, tutte cose non scambiabili come oggetti fuori moda sostituiti da altri, capaci invece di orientare le scelte quotidiane. La forza di attrazione della società sul figlio è spesso inversamente proporzionale alla debolezza interiore della famiglia. 

7.

C’è una paroletta che può sintetizzare il cammino finora percorso: è quella della fede. Il matrimonio, la disponibilità a generare, l’accoglienza del figlio come persona, l’impegno educativo, tutto dipende dalla fede. Le grandi esperienze della vita, quelle per cui vale la pena di lottare, soffrire, gioire, amare, sono tutte appese a questo sottilissimo filo, che permette ad ogni uomo di uscire da sé sbilanciandosi definitivamente verso altre persone, tanto più se queste sono il coniuge e il figlio. Qui ne va dunque dell’intera avventura della vita, che solo la parola della fede riassume. Ma in che senso gli sposi possono nutrire fede nei confronti di un figlio? Non è la fede necessariamente diretta verso qualcuno più grande del figlio? Già si è richiamata la trascendenza del figlio rispetto ai genitori; ora si tratta solo di completare quel discorso. Infatti la trascendenza del figlio (e quindi di ogni essere umano) è disegnata da Dio Creatore, cosicché l’accoglienza del figlio è possibile in quanto i genitori riconoscono in lui un’opera rispetto alla quale essi sono obbiettivamente inadeguati: essi accolgono ciò che in sé è un dono. E poiché i doni più grandi di Dio hanno il carattere personale proprio del donatore, il figlio persona può essere adeguatamente accolto solo dentro la fede per la quale l’uomo riconosce il suo Dio. Dio Padre onnipotente è il Creatore di questo nostro figlio, il quale viene dunque ad essere accolto sulla stessa linea sulla quale i genitori professano la fede in Dio. Obbiettivamente diventare i genitori invita e predispone alla fede in Dio, che comunque, almeno nella sua espressione umana fondamentale, non può essere assente dall’esperienza vertiginosa della genitorialità.
 Ma l’esperienza della fede è una storia da vivere, non un’emozione da spegnere. Ciò vale in modo specialissimo per la generazione di un figlio. Dare alla luce un figlio e venire al mondo significa entrare attivamente in una storia, nella storia concreta di questa nostra comune umanità. E per quanto tale vicenda sia complessa e articolata, è fin troppo facile scoprire che in essa la realtà del male, della violenza e del peccato vi giocano un ruolo determinante. Anche tralasciando il dramma immenso della morte personale, una persona esperta del mondo non può evitare la domanda se valga la pena di generare un figlio in e per questo mondo reale, per questa storia (o società) definita, quella che ogni giorno si svolge sotto gli occhi di tutti. E non si tratta solo della improbabile ascesi buddhistica al fine di superare la sofferenza, ma prima ancora del problema della bruttezza di una vita da vivere nell’unico mondo reale. Vengono così a conflitto due percezioni fondamentali del figlio: il fascino insopprimibile del dono che egli è e della promessa che egli porta in sé da una parte e il dramma e la miseria innegabile della vita reale degli esseri umani dall’altra. Nella nostra cultura, come già avvenuto nel passato, il conflitto conduce spesso alla rinuncia: un forte pessimismo, facilmente verificabile nei discorsi quotidiani, dissuade dal generare figli; oppure la generazione avviene solo con meticolosa parsimonia, avanti negli anni e con scarsa convinzione.
 Infatti il problema è l’elaborazione, ossia la ripresa critica di quel conflitto, la cui serietà è innegabile, anche se spesso esso è declinato di fatto in forme brutalmente egoistiche: i figli scomodano. Generare significa in effetti appartenere corpo e anima a questo mondo, per cui non c’è via di mezzo o compromesso possibile tra rinuncia e impegno. Ora la scelta dell’impegno prende l’avvio non dall’opera dell’uomo, ma da quella di Dio. Ciò che gli uomini fanno è sotto gli occhi di tutti; ciò che Dio compie è, rilevante coincidenza con la generazione di un figlio, visibile solo mediante la fede. Egli infatti ha immesso nella storia umana la storia di Gesù, che con la sua Pasqua di morte e risurrezione ha iniziato la redenzione del mondo e degli uomini dal peccato e dalla miseria. A partire da qui viene offerta ad ogni uomo la concreta possibilità di iniziare il rinnovamento della propria vita e di quella del mondo: la fede è tale inizio di una vita nuova, è una rigenerazione nell’opera di Dio che vuole salvare l’umanità. È il grande dono della rinascita dall’acqua e dallo Spirito Santo, è la chiamata al Battesimo (Giovanni 3, 5-8). Così i genitori sono chiamati a credere e vivere la fede cristiana nella pienezza delle sue dimensioni (conoscitive, affettive e pratiche), percorrendo un personale cammino di adesione a Dio.
 Essi vi sono chiamati proprio anche in quanto generanti: come tali essi introducono il loro figlio nell’unico mondo reale, quello che abbisogna della redenzione di Cristo. Ciò che essi credono e chiedono per sé, credono e chiedono per colui che da essi è stato generato. Proseguendo e approfondendo il loro itinerario di fede, i genitori invocano il dono gratuito della salvezza. Ma ciò vale anche per il loro figlio, il quale, per la sua intima partecipazione alla storia di questo mondo, a sua volta ha veramente bisogno (è il tema del peccato originale, un aspetto rilevante del sacramento del Battesimo) di quella salvezza che solo da Dio può venire mediante Gesù. In segno della loro personale adesione di fede, cresciuta nella e con la chiesa, ora i genitori, che condividono la fede della chiesa, chiedono alla stessa chiesa il battesimo anche per il loro figlio. Ciò ovviamente suppone l’impegno personale, sostenuto dalla comunità, di favorire efficacemente la crescita del figlio nella gioia del vangelo, perché anch’egli possa a suo tempo giungere alla maturità in Cristo. Così i genitori, che sono nel cammino della fede della chiesa, non vogliono estraniarsi dalla chiamata di Cristo, né coerentemente, data l’unità vitale tra generazione ed educazione, possono chiedere alla chiesa la celebrazione del battesimo (che è un sacramento della fede, il quale suppone la fede personale, nel caso dell’infante rappresentata dai genitori e dalla comunità dei credenti) del figlio, battesimo nel quale essi per ipotesi non riconoscano se stessi come credenti ed educatori. È assai dubbio quindi che sia opportuno celebrare il battesimo per infanti, per i quali i genitori non assumono alcun impegno educativo diretto, cedendo forse solo alle pressioni dei nonni, o ai riti di iniziazione di una non più vitale tradizione. Meglio offrire ai genitori opportunità alternative (iniziative pastorali, continuative e coerenti) per avvicinarsi, condividere e praticare la fede e la vita della comunità cristiana, sperando così di far maturare dall’interno quella adesione concreta che porta i genitori ad una coerente richiesta di battezzare il figlio infante o bambino.
 La fede dei genitori assume così quella necessaria dimensione ecclesiale, nella quale i genitori inseriscono il proprio figlio, alimentando in lui una progressiva adesione al mistero cristiano e un crescente inserimento nella chiesa. Del resto chi chiede il Battesimo non può troncarlo da quell’itinerario che porta il battezzato ad una piena comunione di vita con Gesù il Signore, e ai sacramenti che la celebrano ed edificano la chiesa, ossia la Confermazione e l’Eucaristia. Molto utile è dunque sottolineare i nessi obbiettivi e soggettivi che legano la fede dei genitori chiamati ad una vera maturità cristiana e quindi ecclesiale, la fede dei genitori come generanti, la richiesta dei genitori di battezzare il proprio figlio iniziando per lui un cammino di rigenerazione e di accoglienza nella chiesa, che effettivamente i suoi educatori dovranno promuovere. L’inserimento cordiale della famiglia nella comunità cristiana che celebra il battesimo è dunque offerta di accoglienza da parte della chiesa e assunzione di impegno da parte dei genitori: un dialogo che si innesta profondamente in quello che i genitori hanno iniziato col proprio figlio generandolo. E il legame ancora una volta è la fede. Se poi uno dei genitori non intende accedere e di fatto non accede alla fede cristiana e alla sua forma ecclesiale, si può ricordare l’affermazione paolina secondo cui i figli e il coniuge sono santificati dalla fede del coniuge credente (1 Corinti 7, 14): purché vi sia nella famiglia un solido punto di appoggio. 

8.

Dopo aver sottolineato con una certa ampiezza il senso della condizione di genitori e di figlio, non possiamo trascurare che colui che viene donato è immediatamente, e per un periodo non proprio breve, un bambino, anche se in costante trasformazione. I genitori sentono intensamente che quel bambino è una benedizione, una fecondità della loro vita (cfr. Salmo 144, 12; anche Salmo 23), o, come si esprime la preghiera dell’Ave Maria, un ‘frutto’, e quindi senso della vita dei genitori (cfr. anche Salmo 127,3). Non solo, essi spontaneamente sono indirizzati dal bambino verso il futuro, che è la dimensione propria della vita del piccolo. Ogni bambino è figlio della promessa, uno che, prima ancora di assicurare una discendenza carnale ai genitori, incarna la fedeltà di Dio alle sue promesse (messianiche) verso gli uomini, rendendo credibili le ulteriori promesse di Dio. Così del resto vengono ai loro genitori anziani Isacco, Samuele, Giovanni Battista. Lo stesso Gesù, e in modo eminente, è presentato come erede e compimento delle profezie fatte da Dio a Davide (cfr. Luca 1, 30-33; Matteo 1, 20-23): tali bambini insieme chiudono e aprono una storia.
 La Scrittura ci svela un altro significato proprio della condizione del bambino. Egli non è socialmente importante, dipende completamente dagli adulti e legalmente dal padre anzitutto, non ha strumenti propri per farsi valere; i suoi diritti sono semplicemente i doveri degli adulti. Il bambino è quindi figura dell’umile credente, di colui che si fida di Dio, e che sulla scena del gran teatro del mondo sceglie di diventare piccolo ‘come questo bambino’ (cfr. Matteo 18, 1-4; Luca 9, 46-48) per essere grande nel Regno di Dio. Ora si noti che nella situazione appena richiamata Gesù sta rivolgendo il suo insegnamento agli adulti, ai membri della comunità cristiana. A coloro dunque che sono socialmente in vista egli raccomanda l’umile fede come unico accesso a Dio e alla sua salvezza: e modello dell’accesso è ‘questo bambino’. Divaghiamo appena un istante per ricordare che anche nell’ambiente ebraico i bambini erano scarsamente considerati: intrattenersi con loro equivale solo a perdere tempo. Ma chiediamoci: è forse facile per i genitori e gli adulti in generale vincere oggi la tentazione di considerare perso il tempo dedicato ai piccoli, propri e altrui? Del resto nell’antichità il pedagogo, l’educatore, era per lo più uno schiavo, e ancora nell’epoca moderna il precettore era un servo della famiglia: i padroni infatti non si impicciano con i bambini! Poiché le applicazioni ai comportamenti socialmente diffusi oggi sono molto facili (gli adulti infatti si dedicano alla carriera, all’arricchimento, alle relazioni sociali, ecc.), ritorniamo al nostro tema. Nel vangelo ‘questo bambino’ è addirittura una figura molto vicina a quella dei poveri e degli indifesi. Accogliere il regno di Dio come un bambino significa dunque accoglierlo come puro dono, rinunciando a prestigio, potenza e ricchezza (cfr. Marco 10, 13-16; cfr. Salmo 113 e 123), rimpicciolendo se stessi, perché Dio rivela il suo regno proprio a coloro che diventano volontariamente come piccoli bambini, ossia discepoli del regno (cfr. Luca 10, 21s.; Salmo 131). Perciò la domanda sul più grande transita attraverso la figura del bambino (che ormai significa orfano, bambino povero e indifeso) verso quella ancor più scadente del servo di tutti, mentre l’accoglienza di uno di questi bambini nel nome di Gesù è accoglienza di Gesù, anzi di Dio stesso (Marco 9, 33-37). Ma qual è il nome di Gesù? Non ci meraviglieremo a questo punto di leggere che anche Gesù viene chiamato e ripetutamente con il  termine greco ‘pais’, che ha un doppio affine significato: Gesù è bambino e servo di Dio (Atti 3, 13 e 26; 4, 27 e 30), colui che compie in piena obbedienza il progetto di Dio sulla sua vita. Ora si staglia nettamente il senso e il valore della figura del bambino per l’adulto e la sua posizione nella chiesa e nella società: mentre l’adulto insegue i primi posti, il figlio bambino lo richiama pazientemente (per lunghi anni) alla posizione giusta davanti a Dio e agli uomini: quella di chi pienamente di Dio si fida e perciò apre il cuore agli altri, senza alcuna presunzione di sé. Questi è il discepolo di Gesù, e di tali persone il discepolo si occuperà in modo privilegiato: da qui le molte istituzioni che la chiesa nel corso dei secoli ha fondato a favore dei bambini orfani, poveri, abbandonati, handicappati. Il medesimo tratto caratterizza infine la preghiera, e in modo radicale: Gesù e i suoi discepoli si rivolgono a Dio con l’appellativo aramaico: ‘Abbà’, ‘padre mio’, una tenera espressione con cui i figli bambini ma anche adulti si rivolgevano al padre loro, espressione che Gesù sorprendentemente non solo usa in prima persona, ma anche partecipa ai suoi discepoli: Padre nostro, ecc., la grande preghiera dei figli di Dio. Ecco un altro immenso e duraturo dono che il figlio bambino offre ai genitori. 

9.

Suggeriamo, andando verso la conclusione di questo cammino, una breve riflessione su un tema molto sentito dai genitori: quello del numero dei figli. Nello scritto precedente già abbiamo espresso riserve sul modo ‘numerico’ di affrontare la questione; aggiungiamo che anche l’approccio dal punto di vista dei soli genitori è parziale. Non c’è dubbio che esso sia rilevante, e tale rilevanza è giustificata dal loro senso di responsabilità. Ma v’è un altro punto di vista da prendere in considerazione, tanto più quanto più si ha capacità di guardare lontano: è il punto di vista del fratello. L’approccio numerico pensa il fratello come aggiunta di uno ad un altro; invece la relazione affettiva fraterna sente il fratello come un essere originario, ed essere fratelli risulta un essere costituiti insieme, con uguale diritto, all’interna della famiglia una. Anche fratelli e sorelle sono nell’intimo dell’io, della sua storia concreta e individuale, sono nell’intimo della coppia e della famiglia. E come i genitori, una volta generato il figlio, non riescono a pensarsi diversamente, ossia senza il figlio, cosicché sembra loro che quel figlio ci sia sempre stato, altrettanto vale per i fratelli: si è sempre e per sempre fratelli, lo si è come identità. Se dunque finora abbiamo parlato di figlio al singolare, ciò è avvenuto per meglio evidenziare il carattere unico del figlio, unicità pienamente compatibile con la molteplicità dei figli, come l’esperienza di ogni famiglia dimostra. Non è retaggio di una mentalità familistica l’esaltazione biblica di una prole numerosa (cfr. Salmo 127 e 128), ma canto di un’esperienza di partecipazione umana, di benedizione, di abbondanza di vita, di festa («ecco quanto è buono e soave che i fratelli vivano insieme»: Salmo 133). Di nuovo non si tratta di numeri, ma di una disponibilità che mentre subito sacrifica, poi ritorna quale benedizione. Del resto proprio a questo punto si vede che la famiglia è come il germe della vita sociale: genitori e figli, fratelli e sorelle scrivono la struttura sociale fondamentale, che rapidamente si allarga a nonni, cugini, zii, ecc. Non solo, ma anche le amicizie più intense vengono espresse (e sentite) come una fraternità, la quale giunge fino a comprendere la vita politica e civile, che nel suo ordine democratico si vuole come esperienza di fraternità (si ricordi il motto della rivoluzione francese). Così la famiglia diventa davvero modello e in qualche modo norma dell’intera esperienza umana: con le sue regole di attenzione reciproca specie verso i più deboli, di assunzione di responsabilità, di collaborazione, di libertà. Queste sono sostanzialmente contenute nel famoso quarto comandamento (onora il padre e la madre) che riguarda soprattutto i figli adulti nei confronti dei genitori anziani e bisognosi (cfr. Marco 7,9-13), oltre che negli insegnamenti biblici rivolti ai genitori come educatori. E se è vero che Gesù mette in guardia dal rischio di tagliare o offuscare la radice trascendente dell’identità e del valore della famiglia, trasformandola in un possesso o in un vanto individuale o di gruppo (cfr. Luca 15, 26), insomma un segno del potere (per lo più maschile), e pertanto promette una centuplicata ricompensa a chi per amore suo e del suo regno rinuncia a tale beni intesi alla stregua di un potere, è altrettanto vero che la chiamata dei primi discepoli è rivolta, quasi ad anticipare la qualità fraterna della chiesa dei discepoli di Gesù, a due coppie di fratelli: Pietro e Andrea, Giacomo e Giovanni (Matteo 4, 18-22). Anche la chiesa si formerà dalla e sul modello della fraternità familiare: un nuovo indizio della vicinanza, celebrata nella fede dei genitori che chiedono l’inserimento del proprio figlio nel cammino della fede cristiana, tra chiesa e famiglia. 

10.

In conclusione potrebbe essere presentata un’obiezione seria: lungo l’intero percorso non si è quasi mai messo in rilievo un fatto fondamentale, tanto più se si vive l’esperienza della generazione nella prospettiva della fede cristiana: non è forse stato dimenticato l’amore, principio e meta di tutto l’impegno di un cristiano, secondo il comandamento del Signore? Ebbene sono tanti gli equivoci che nella cultura contemporanea e nel discorso ordinario si addensano sulla verità dell’amore, specie in rapporto al nostro tema, che abbiamo preferito esporre il tutto con una certa ampiezza prima di spendere quella sacra parola. Lo scopo è precisamente di valorizzarla nelle sue molte diramazioni mostrando la sua profondità, e solo allora esibendola. Certo si tratta sempre e solo di amore, nel suo pieno significato, con le sue mille sfumature, delicatezze, precisioni e libertà. Dall’amore né si deve, né si può uscire: meno che mai quando si tratta di figli. E poiché l’avventura dei figli è tanto grande per loro e per i genitori, proprio solo l’amore sostiene anche i momenti di prove enigmatiche e dolorosissime, come la malattia e la morte di un piccolo bambino non ancora o da poco nato; o una malattia che si annuncia come compagna di tutta una vita. Un dovere emerge allora sovrano su ogni altro: la comunità cristiana anzitutto, i vicini e i parenti, la comunità civile per la sua parte, nessuno abbandonerà quella famiglia, ma nella forma più discreta e umile sosterrà un duro cammino, del quale solo l’amore sarà insieme ragione e ricompensa. Una ricompensa tanto vera che non è raro udire i genitori di questi figli confessare la forza decisiva dell’amore: ma non di quello che danno, ma di quello che essi ricevono! Non resta allora che inchinarsi e ammirare il frutto che le lacrime possono maturare: veramente nulla potrà mai separarci dall’amore di Dio in Cristo Gesù nostro Signore (Romani 8, 38s.).

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