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Genitori e Figli nella famiglia affettiva

GENITORI E FIGLI NELLA FAMIGLIA AFFETTIVA
Sintesi del convegno della 
Facoltà teologica di Milano
(febbraio 2002)
 
È un’epoca complessa quella in cui viviamo. E la sensazione di essere espropriati di ogni possibilità di dominare obiettivi, contenuti, senso dei processi che ci coinvolgono e di verificarne l'esito, genera a sua volta incertezza, precarietà ed ansia. Difficile, in queste condizioni, dire i propri progetti, ciò che si vuole essere e ciò che si vorrebbe per gli altri. Difficile raccomandare il mondo come dimora praticabile e affidabile in cui volere e scegliere di vivere perché ne vale la pena. Difficile, infine, richiedere fiducia per le proprie ricette e i propri modelli quando non si ha niente di buono da promettere in cambio.
Ma se non ci si può più reciprocamente riconoscere come soggetti portatori di una qualità umana, ciò che è umano non si può nemmeno trasmetterlo per garantirne la continuità. Il rischio (oggi sempre più concreto) di un esito dis-umano della convivenza chiama in causa proprio il rapporto genitori-figli.
 
LA QUESTIONE DELL’IDENTITA’

L’identità del soggetto non si dà già fatta, a monte rispetto ai rapporti effettivi: si realizza nel tempo, in un dramma. Essa non è fondamento a se stessa, né ha rapporto immediato, mistico, con l’Assoluto, ma è legata alle mediazioni storiche e pratiche, alle forme culturali: anche i rapporti umani immediati in cui si sperimentano gli affetti, l'amore, il senso della comunità e dell'autorealizzazione diventano, soprattutto oggi, ambiti in cui ricercarla. E tuttavia rimuovere dall’orizzonte dell’umano il destino, in realtà costitutivo, della generazione, significa sottrarre all’adulto la possibilità di uscire dal narcisismo dell’adolescenza attraverso la svolta esistenziale radicale che l’assunzione di responsabilità verso i figli comporta.

Proprio l’identità personale, e dunque le modalità relazionali precedenti, sono chiamate ad una profonda ridefinizione nel passaggio dalla dimensione di coppia alla triade familiare che la generazione produce: l’amore tra i coniugi deve infatti arricchirsi in termini di solidarietà e generosità per far fronte al disagio che la necessità di prendersi cura di altri in modo permanente e irreversibile comporta. L’esclamazione di Eva dopo il parto di Caino: “Ho acquistato un uomo dal Signore” (Gn 4, 1-2a) si riferirebbe proprio all'identità di Adamo, che riceve il suo compimento dall'esperienza della paternità. Il processo è però laborioso, il suo esito non scontato: le difficoltà obiettive rischiano spesso di far rimandare la scelta procreativa fino alla decisione di non decidere.

 
DI PROMESSE E COMPIMENTI

Raggiungere un’identità personale propria è il compito assegnato al momento della nascita, ciò che permette di trasformare con una decisione positiva l’atteggiamento nei confronti della vita dal semplice ricevere al volere. Volere la vita: è il compimento di un cammino che si dispiega nel tempo, in una vicenda. Un cammino che si riscontra nell’esistenza di ogni persona, ma, in modo analogo, nelle vicende stesse del libro dell’Esodo, di Gesù Cristo e dei suoi discepoli . Esso segue delle fasi ben precise, anche se non sono rigorosamente separabili.

Nella fase iniziale si tratta di far intuire che la meta cui il cammino è orientato promette qualcosa di significativo. Cruciali a questo fine sono la cura e l’affetto dei genitori . Nel tempo della fanciullezza si tratta invece di sostenere il cammino, perché la lontananza della meta, ancora soltanto promessa, rischia di scoraggiare. Ma per cogliere il senso dell'affetto e dei doni sono necessarie l’obbedienza e la fedeltà pratiche alle istruzioni, che servono a guidare il cammino. Se non si assume la visione del mondo di chi si è avviato lungo il cammino non si può essere cogliere la verità della promessa iniziale. E tuttavia non è sufficiente che questa verità sia sperimentata: per essere riconosciuta essa ha bisogno di essere messa in crisi da delle ferite (confronto con altri modelli ), di venire progressivamente ripresa nel tempo dell’adolescenza, e infine fatta propria attraverso un passaggio decisivo (generazione). Solo così si potrà acquisire una identità nuova, che permetta di disporre di sé nella libertà: allora non sarà più necessario ricercare conferme del valore proprio e del proprio impegno nelle conseguenze dell’agire, perché la nuova situazione costituirà la conferma di essere stato voluto non come mezzo per qualcos’altro, ma come fine in sé. Si riconosce che la volontà del padre, da cui la propria vita dipende, è buona perché non ha puntato allo spadroneggiamento dispotico, ma ha avviato ad un camino autonomo. Questa identità rappresenta un dono che può solo essere riconosciuto: in quanto viene ulteriormente trasmesso. Proprio la generazione dei figli, proprio come decisione di rimanere nella volontà e nell’amore originati da questa identità,, realizzano nel modo più autentico il riconoscimento.

 
DIVERSI MODELLI DI FAMIGLIA
Il problema del reciproco riconoscimento e della trasmissione dei modelli genitoriali non si poneva quando la figura concreta di famiglia era quella integrata: in essa i processi di identificazione, interiorizzazione e imitazione permettevano di assicurare un equilibrio pressoché spontaneo dei fattori affettivi ed etici, di fiducia e appartenenza, perché il contesto socio-economico le affidava una funzione totalizzante.

In concomitanza con l’accentuarsi della divisione del lavoro, la cultura dell’epoca moderna è riuscita a proporre il modello di una società democratica usando l'accusa di “paternalismo” per mettere in discussione la tradizione cristiana: Liberté Egalité Fraternité, motto della Rivoluzione Francese, suggeriva una società magari anche fraterna, ma senza padri. Le figura del padre e dell’autorità, entrambe imprescindibili per la consistenza della relazione educativa, diventavano così obsolete. La rivoluzione della democrazia, ha ispirato i vincoli naturali a fiducia, confidenza, affetto e reso i rapporti intrafamiliari più intimi e dolci, ma il prezzo è stato l’allentamento di quelli sociali e la divisione dei cittadini. L’appartarsi dei coniugi rispetto al resto della società ha ridotto la famiglia al suo nucleo e la funzione parentale agli aspetti simbolici dell’iniziazione. Il riferimento agli obiettivi, modelli e valori etici che permettono di orientare e poi verificare i processi, è risultato indebolito dalla necessità di aumentare la coesione interna e la distanza da un contesto socio-culturale, presto dominato dalla competizione, nei confronti del quale la famiglia si sente sempre meno responsabile e sempre più impotente, e dunque succube.

La divaricazione tra famiglia e società è proseguita: la famiglia ha assunto la figura di comunità di amicizia, in cui la realizzazione dei membri dipende sempre meno dai modelli di vita che essa è in grado di trasmettere, e sempre più dal consenso e dalle conferme dell’identità che la capacità di dare e ricevere affetto consente. Questa ricerca di conferme può essere rintracciata in alcuni dei modi con cui i genitori cercano di far fronte al disorientamento educativo e all’assenza di punti di riferimento: l’oscillare degli atteggiamenti verso i figli tra l’autoritarismo, espresso da preoccupazione protettiva e prescrizioni ostacolanti, e il giovanilismo, con la sua eccessiva condiscendenza; il senso di inadempienza nei confronti dei consigli che esperti e nuovi media dispensano in eccessiva autorevolezza; la delega delle funzioni educative ad ambiti organizzati esterni alla famiglia, con la riduzione della famiglia a mero gestore del tempo libero dei figli, privati della possibilità di relazioni spontanee e di autogestirsi il tempo; infine l’alto livello di aspettative nei confronti dei figli, che li impegna ad una forte competizione sui risultati per corrispondere al desiderio dei genitori di vederli collocati ai massimi livelli di stimoli e opportunità (bellezza, successo, benessere) e fugare i loro timori d’insuccesso.

A causa della competizione spinta in cui si sente coinvolta, la famiglia affettiva, in cui i genitori si concentrano sulla consumazione affettiva del figlio soprattutto nel tempo dell’infanzia, rischia così di degenerare in familismo, sistema in cui alla morale interna, autonoma e funzionale alla cura dei suoi membri, non corrispondono norme etiche nei confronti dei soggetti esterni, altre famiglie e società in generale. Viene così meno la percezione della responsabilità che le proprie azioni ed omissioni comportano nei confronti del contesto in cui essa si inserisce. La famiglia contrattuale del tempo adolescenzialepresenta ben altre dinamiche: il timore di provocare “ferire mortali” alla convivenza familiare spinge i genitori a ritirarsi dal confronto con il branco giovanile e con la società dei consumi e dello spettacolo. Perdenti in termini di immediatezza delle gratificazioni per la facilità dell’integrazione sociale propiziata da quei contesti, essi barattano il riconoscimento di cui necessitano con l’offerta di sempre maggiori spazi di autonomia e godimento, privandosi così della possibilità di poter sostenere i figli quando l’integrazione diventa assoggettamento e genera solitudine.

Anche i miti adolescenti della crescita continua, del cambiamento inarrestabile e della formazione permanente che ricomincia all’infinito offrono un sostegno ideologico che ostacola l’esigenza della restituzione, dell’uscita dal narcisistico riferimento a se stessi per aprirsi alla responsabilità dell’altro attraverso la continuazione dell’umano che è comune. Ma in questo modo l’autorealizzazione si trasforma in approssimazione infinita al compimento di una identità che non si realizza mai, mentre l’iniziazione, che inaugura l’appropriazione individuale dell’umano attraverso la ritualizzazione dei passaggi decisivi, si dissolve nella celebrazione di passaggi continuamente cercati ma sempre reversibili e rinegoziabili, senza ferite, nel non-tempo della superficialità e dei rapporti con gli altri da usare e gettare.

 
PER UN’ETICA DELLA RESPONSABILITÁ
Di fronte all’incapacità che scuola e genitori oggi mostrano nel sostenere cammini che un tempo andavano quasi da sé, far riferimento ai profili di educazione elevati ed idealizzati forniti dall’esperienza credente rischia di caricare i genitori di attese e compiti eccessivi, salvo poi lasciarli soli a gestire i fallimenti che ne conseguono.
Si tratta allora di non considerare soltanto il ruolo dei genitori, come se i figli fossero elementi passivi e quasi estranei alla famiglia perché proiettati al di fuori di essa, per mettere al centro i vissuti che la coinvolgono come tutt'uno: figli e genitori che si riconoscono e influenzano reciprocamente in termini di alleati da un lato, destinatari dall’altro, nella collaborazione all’azione creatrice di Dio.

Ma più radicalmente si tratta di correggere la schizofrenia che caratterizza il rapporto tra comunità cristiana e famiglia: a fronte della sua importanza e delle minacce che la assediano, la mancanza di un suo spazio proprio all'interno della più ampia comunità fa sì che essa sia lasciata a se stessa, come se, invece di sostenerla in quanto anello insostituibile per l’introduzione dei figli alla vita di fede nella comunità, la volontà fosse quella di isolarla in quanto responsabile del loro allontanamento. Questa solitudine la rende ancora più vulnerabile al relativismo e all’indifferenza dominanti nel contesto sociale. Lo stile di vita improntato alla privacy e alla competizione fa sì che siano i media a soddisfare il bisogno delle famiglie di non essere lasciate sole nella responsabilità dell’educazione dei figli, con i problemi sopra richiamati. Salvo poi lasciarla più indifesa nei confronti del logoramento emotivo quando l’esposizione pubblica che consegue all’ingresso dei figli nelle istituzioni educative viene vissuta, in assenza di comunicazione sui problemi dell’essere genitori e di condivisione delle responsabilità, con il timore del giudizio del pubblico sul proprio privato. Di fronte alla povertà di confronti e alla carenza di relazioni servono occasioni per condividere, dialogare e scambiarsi le esperienze tra famiglie, con la cura di rendere i vissuti accessibili soprattutto dal punto di vista etico, ovvero del loro significato simbolico.

Solo creando, e magari strutturando in veri e propri percorsi di vita comunitari, più vaste reti di condivisione e solidarietà, è possibile rafforzare le competenze genitoriali e ridurre il disagio che l’esercizio del ruolo di guida e di punto di riferimento nei confronti dei figli comporta, facendo anzi riscoprire la gioia che accompagna l'esperienza di essere genitori.. Si tratta di favorire situazioni di relazionalità spontanea, spazi di socialità di quartiere e occasioni in cui il territorio possa tornare a vivere, i bambini a riappropriarsi dello spazio, le famiglie a ricostruire i rapporti di vicinato con legami e relazioni significative. Promuovere genitorialità e responsabilità educative diffuse, che trasmettano l’umano anche all’esterno della famiglia, a terzi, permetterà l'inversione nella tendenza dominante a considerare estranei i figli altrui; la correzione della specializzazione affettiva e amicale della struttura familiare, frustrata dall’incapacità di smaltire al proprio interno le eccedenze di attese, sogni, progetti, emozioni, cure, investimenti ecc. legati alle esperienze della coniugalità e della paternità; e l'assunzione da parte dei genitori del ruolo di coattori delle risposte ai bisogni e protagonisti nella produzione del sapere esistenziale che orienta al cambiamento, alla crescita e alla resistenza alle logiche che impongono di conformarsi al mondo presente. Questa trasformazione è possibile soltanto portando alla creazione di reti di mutualità, che consentono ai genitori di acquisire consapevolezza delle potenzialità e risorse da essi possedute, va precisamente in questa direzione.

 

Ma per contrastare la precarietà educativa che spinge ad agire “alla giornata” c’è bisogno di progettualità di lungo respiro, di prospettive di educazione permanente, che, a partire dalla preparazione al matrimonio e alla famiglia, sappiano riscoprire il valore della durata. C'è bisogno di reinventare creativamente rituali di passaggio che siano affermazione spirituale e conferma comunitaria di un inizio nuovo. C’è bisogno che la migliore cittadinanza a base familiare sia stimolata, sostenuta, ma anche resa più stabile dallo spessore etico-politico del terzo sociale (amministrazione, diritto, governo della comunità locale). C’è bisogno infine di una nuova rete ecclesiale in grado di benedire la vita interpretando con saggezza e affetto la prossimità del terzo tra genitori e figli, sempre comunque nel Nome-del-Padre, senza il quale l’iniziazione non finisce mai, l’azzardo è abbandonato a se stesso, le ferite diventano sacrificio insensato e inutile dispendio. In nessun altro Nome la promessa più radicale di umanità può infatti trovare compimento.

Simone Zacchi