La rinuncia del papa Celestino V
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LA RINUNCIA DI PAPA CELESTINO V AL PONTIFICATO
Il recente restauro, promosso con la consueta premura da don Alberto Bonandi e dai parrocchiani ed eseguito da Stefano e Rosa Sacchetti con la supervisione della dott. Giuseppina Marti della Soprintendenza, ha portato al ricupero di un altro dipinto della dotazione della chiesa di Sant’Egidio a Mantova, dotazione che altri ha detto a suo tempo costituire una vera e propria “piccola pinacoteca” (Cattafesta, 1994).
Raffigura la Rinuncia di papa Celestino V al pontificato.
È stato risistemato nella sagrestia, là dove era stato posto, probabilmente, sul finire degli anni ’30 del secolo appena trascorso da don Casimiro Brunelli, allora fresco parroco, durante la sua sistemazione dell’ambiente, insieme alla lapide tombale del pittore Giovanni Cadioli: è nominato infatti nell’inventario del 1939.
Lasciò scritto nelle sue brevi, ma per noi preziosissime, note don Amedeo Bacchelli (parroco dal 1894 al 1909): «Nel 1832 circa il Sig. Giulio Vanzini donò … un quadro ovale con bella cornice rappresentante S. Pietro Celestino pp (papa)». Pervenne dunque a Sant’Egidio attraverso un privato, che certo lo aveva acquistato ad una delle aste successive alle soppressioni (fine 1700 – inizi 1800).
A quale edificio religioso appartenesse originariamente, non è dato sapere: le accurate ricerche condotte tra i documenti sia dell’Archivio di Stato che di quello Diocesano non hanno dato fino ad ora risposta, per cui ci si dovrà limitare, come vedremo, a formulare delle ipotesi.
Di notevole interesse il soggetto, che non può non farci rispolverare lontani ricordi di scuola legati alle terzine dantesche (quel «gran rifiuto» fatto, secondo l’Alighieri, «per viltade» da papa Celestino V – cfr. Divina Commedia, Inferno, canto III, vv. 59-61 – che portò al soglio pontificio Bonifacio VIII della potente famiglia romana dei Caetani) come ad un’opera letteraria del nostro tempo, l’Avventura di un povero cristiano, di Ignazio Silone (1968).
Un breve cenno biografico sul personaggio.
Celestino V, al secolo Pietro (Isernia 1215? – Fumone, presso Anagni, 1296), detto da Morrone dal nome del Monte, non lontano da Sulmona, sul quale più spesso si isolò in eremitaggio, proveniva da un’umile famiglia contadina, penultimo di dodici figli. Profondamente religioso, con la parola e con l’esempio raccolse intorno a sé numerosi seguaci in una congregazione che ebbe un primo riconoscimento da papa Urbano IV nel 1263 e a Lione, nel 1274, dopo il concilio, da papa Gregorio X la riconferma, come emanazione dell’ordine benedettino. Essa fu detta in un primo tempo dei «Fratelli dello Spirito Santo» e, più tardi, dal nome da Pietro assunto come pontefice, dei «Celestini».
Il 5 luglio 1294 infatti, ormai quasi ottantenne, egli venne a sorpresa chiamato al soglio pontificio, per la santità della sua vita ma, non si esclude, per una mossa politica suggerita da Carlo II d’Angiò, re di Napoli.
Rimase in carica per pochi mesi: forse l’eccessiva ingerenza di Carlo (in ottobre Celestino si era trasferito a Napoli con la Curia) oltre alla coscienza della sua impreparazione politica e della sua debolezza in un ambiente così lontano dai suoi principi, lo convinsero alla rinuncia della carica, che avvenne il 13 dicembre, alla presenza dei cardinali riuniti in concistoro. Tenuto sotto custodia dal nuovo papa e isolato da tutti, morì il 19 maggio 1296 nel castello di Fumone. Nel 1313, anche per le pressioni del partito avverso a Bonifacio, nel frattempo scomparso, venne proclamato santo. Le sue spoglie, dopo varie vicissitudini, trafugate dai Celestini, furono collocate nella bella chiesa di Santa Maria di Collemaggio, presso l’Aquila.
Raffigurazioni del santo, spesso in cicli completi ispirati alla sua vita, si trovano soprattutto nell’Italia Centro – Meridionale, in special modo là dove visse e in cui più numerosi erano sorti i conventi del suo ordine (Bibliotheca Sanctorum, III, 1963, ad vocem). Nel dipinto oggi in Sant’Egidio, egli è rappresentato ancor giovane e aitante, nell’atto di togliersi gli abiti pontificali. I gesti sono sobri e pacati, lo sguardo sereno è rivolto verso l’alto, alla colomba simboleggiante lo Spirito Santo che gli ispirò la grave rinuncia. Serenità e rispettoso stupore pervadono anche i volti degli astanti, specie quello del cardinale che lo fiancheggia a sinistra. Ai suoi piedi, su un largo bacile d’oro, giacciono il triregno e le chiavi. Un putto alato che precede in volo la colomba, regge un nastro con la scritta «Exemplum dedi vobis (vi ho dato l’esempio)».
L’aspetto giovanile contrasta con l’immagine di lui che ci si sarebbe aspettati, quella di un uomo in tarda età, che appare in molte delle figurazioni che lo riguardano. Forse la realtà è stata forzata e trasfigurata per un preciso intento della committenza, volto a mettere in evidenza la sua forza d’animo e la sua “giovinezza” interiore.
Il dipinto fu certo commissionato dai Celestini mantovani. Probabilmente, è un’ipotesi, non per la loro chiesa (non sarebbe sfuggito al Cadioli – l’altare di San Pietro Celestino e di San Benedetto era il secondo a destra, entrando), ma per il convento, in cui avrebbe avuto maggior ragione di stare come esempio perenne ai confratelli di umiltà e di sincera e piena coscienza dei propri limiti.
Ma dove avevano chiesa e convento i Celestini?
Scrive il Donesmondi che al ritorno dal concilio di Lione, Pietro da Morrone soggiornò a Mantova e i Mantovani, «ammirando la santità di questo servo di Dio, gli consegnarono l’oratorio di S. Anna con tutto il sito intorno per potervisi fabbricare (come poi fu fatto) un convento» (Historia, I, 1612).
La zona della città è quella che si trova all’angolo tra via Giulio Romano e via Giovanni Acerbi: qui sorge tuttora la chiesa di San Cristoforo, fino a pochi anni fa mostra del mobilificio Dusi, con il fabbricato adiacente (l’ex convento) adibito ad abitazioni private.
Sulla data di edificazione della chiesa attuale al primo quarto del 1400, indicata sempre dal Donesmondi, il Marani appare incerto (Mantova: le Arti, II, 1961) e d’altronde un documento del 1675, rinvenuto da noi nell’Archivio di Stato, che reca la cronistoria di essa e una sua descrizione, per altro assai interessante, non ci aiuta molto.
Ancora il Marani osserva che certamente la costruzione fu completata nella seconda metà del secolo: richiami stilistici nella facciata ancor gotica l’accomunano ad altri esempi coevi della città e del contado, specie alla cattedrale di Asola.
E infatti il Donesmondi parla nuovamente di San Cristoforo all’anno 1479. I lavori sarebbero stati sovvenzionati da due nobili famiglie mantovane, quelle degli Andreasi e dei Monza, e avrebbero inglobato «l’antico oratorio di S. Anna» in modo che servisse da cappella. La notizia è avallata in certo qual modo dal documento seicentesco, che ricorda la presenza della lapide sepolcrale di Francesco Monza (1492) dietro l’altar maggiore.
Lo stesso documento testimonia i lavori svolti nel 1500: dalla costruzione della sagrestia (1519) a quella del chiostro (1538), del refettorio (1545), del campanile (1557-1595); e, nel 1600, soprattutto quelli relativi alla sistemazione di alcuni altari all’interno della chiesa.
All’inizio del 1700 il complesso monastico, ormai vetusto, necessitava di restauri. L’Amadei dà notizia di importanti interventi promossi dall’allora abate, padre Giulio Oddi, romano (1708 e successivi): non solo venne data maggior luce all’interno della chiesa con l’apertura di finestroni verso l’altar maggiore, ma si rinnovò quest’ultimo, si ricostruì, ampliandola, la sagrestia e, sopra di essa, si costruì ex novo l’appartamento dell’abate, mentre furono aggiunte nuove e accoglienti stanze per i monaci (Amadei, Cronaca, IV, 1750 ca.).
Si può ipotizzare che proprio a queste innovazioni sia legata l’esecuzione del dipinto oggi in Sant’Egidio: dal restauro si è appurato che la tela è, per tessitura, databile al massimo all’inizio del 1700, come pure la preparazione, mentre alcuni dati iconografici e, dal punto di vista stilistico, l’equilibrio dell’impianto compositivo e delle figure e la regolarità dei lineamenti fanno pensare ad un pittore di tendenza classica, non locale e scelto forse dall’abate stesso, che proveniva da Roma.
Già nel 1774, durante la prima ondata di soppressioni, quella voluta dall’imperatrice Maria Teresa d’Austria, che colpiva le congregazioni con meno di dodici componenti, i Celestini furono costretti ad abbandonare Mantova, accolti dai confratelli di Milano e di Magenta. Chiesa e convento passarono agli Olivetani di Santa Maria del Gradaro, i cui stabili erano stati requisiti e utilizzati per l’Artiglieria. A questi ultimi spetta la decorazione a monocromo di una parte della navata della chiesa, tuttora visibile.
Con l’abolizione di tutti i conventi rimasti da parte del Francesi nel 1797, soppressi pure gli Olivetani, l’ex convento venne ristrutturato da Paolo Pozzo e adibito ad uffici, mentre la chiesa diventava magazzino militare (1813; Iacometti, Le soppressioni, 1983). Il campanile fu demolito nel 1839 (Restori, Mantova e dintorni, 1937).
Dunque il dipinto potrebbe essere stato eseguito all’inizio del 1700, su commissione dell’abate Oddi, da un pittore «foresto», probabilmente romano, per il convento dei Celestini, allora degnamente da lui ristrutturato insieme alla chiesa, come scrive l’Amadei.
Soppressi i Celestini, andò disperso come tutto ciò che formava l’arredo dei due edifici e pervenne nelle mani del Vanzini, che nel 1832 lo passò a Sant’Egidio.
Si era in un primo tempo pensato che esso fosse identificabile con quello nominato nell’epigrafe murata alla parete sinistra della cappella Valenti Magnaguti, fatto trasferire in Sant’Egidio dal cardinal Luigi Valenti Gonzaga da San Cristoforo nel 1777, anche per la presenza di una reliquia di san Celestino sotto la pietra sacra dell’altare: l’altare stesso avrebbe potuto appartenere originariamente a quella chiesa.
Quest’ultima ipotesi potrebbe essere plausibile: gli Olivetani si erano trasferiti nel 1775 e forse avevano cominciato subito in chiesa lavori di adattamento e favorito lo spostamento dell’altare (quello di san Pietro Celestino e di san Benedetto), che per loro non aveva più significato? Meno plausibile la prima: l’epigrafe non dà il titolo del dipinto, e per di più lo definisce «tabula (tavola)», lasciandoci molto perplessi.
Maria Giustina Grassi
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