L'elemosina di San Guerrino
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L’ELEMOSINA DI SAN GUERRINO
Fin dal 1625 il nobile Francesco Guerrini, «Questore del ducale Maestrato (la magistratura istituita dal duca Guglielmo Gonzaga che amministrava i proventi dello stato)», erige nella chiesa di Sant’Egidio la cappellania o beneficio sotto il titolo di San Guerrino, con l’intenzione di dotarla e di costituirla a giuspatronato per sé e per i suoi eredi. Superato il tristissimo periodo del “sacco” e della peste, nel 1632 si impegna a consegnare al sacerdote, che verrà eletto come rettore del beneficio, la somma di cento scudi di sei lire «piccole» di Mantova all’anno, con l’obbligo di celebrare la Santa Messa in tutti i giorni di precetto e altre tre nel corso della settimana per le anime sua, di sua moglie e dei defunti della famiglia. Unisce altri sei scudi annui per la cera e per «tutti gli ornamenti». E altri dieci ne aggiungerà nel suo ultimo testamento (1648).
Il figlio Ferdinando nel 1661 ordina ai suoi eredi, i cugini Antonio Guerrini e Giacomo Rocci [o Rozzi], di accrescere la donazione, con l’obbligo della celebrazione giornaliera della santa Messa, di altri cento scudi, per un totale di duecentosedici. Questa è la somma di cui le signore Barbara Rozzi Pellicelli e Lucrezia Rozzi Galvani sono debitrici alla chiesa nel 1736, quando l’allora rettore del beneficio, don Angelo Maria Dall’Oglio, scrive una sua relazione per indurle a rispettare gli obblighi dell’avo. Questa relazione è per noi utilissima per le notizia che ci offre non solo sulla nascita e sulle vicende del beneficio, ma anche sull’altare ad esso legato: «si è l’ultimo “in cornu Evangelij” (a sinistra del presbiterio)», scrive il rettore, ed ha «un piciolo Quadro con l’effigie di S. Guerrino Abbate Cardinale».
Nel ‘600 l’altare aveva dunque probabilmente la stessa posizione che fu fissata dopo la ricostruzione settecentesca dell’edificio (1721-1723) e che si ricava con maggior preisione dall’inventario del 1° giugno del 1730., steso dal parroco Giovanni Bellana (1718-1742): era il terzo a sinistra, di fianco all’altar maggiore. Come pala esso aveva allora un dipinto, certo ancora quello seicentesco, che sappiamo dalle parole del Dall’Oglio essere «piciolo» e che lo stesso Bellana ritiene «sproporzionato alla cappella». Egli pensava certo di sostituirlo con uno nuovo, come aveva già fatto con quelli degli altari della Natività e dello Spirito Santo, da poco consegnati l’uno da Pietro Fabbri, l’altro da Giuseppe Orioli. Ed infatti l’inventario del 1742, redatto alla sua morte dal parroco di Sant’Apollonia, Celestino Badalotti, in attesa della nomina del successore, ci dice che all’altare «la palla [pala]è nuova, ed è di mano del Sig.r Giovanni Gadioli [Cadioli] Pittore, con cornice di legno à vernice d’oro».
Il dipinto era stato eseguito quindi tra il 1736 e il 1742. Da chi sia stato pagato non è dato sapere, ma certo almeno un contributo deve essere stato a carico delle due sorelle Rozzi, che detenevano il giuspatronato dell’altare.
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Giovanni Antonio Cadioli è figura eminente nel Settecento artistico mantovano. Nato intorno al 1710, pittore e architetto teatrale (curò le scene per il Re Pastore di Pietro Metastasio), dotato di discreta cultura e di capacità organizzative e didattiche, tenne nella propria casa fin dal 1739, durante la stagione invernale, coadiuvato dallo Schivenoglia, un corso di pittura e scultura: quello stesso che, avuto nel 1752 il riconoscimento da parte di Maria Teresa d’Austria, diede luogo all’Accademia di Belle Arti, solennemente inaugurata nel 1753. Di essa fu, fino alla morte, vicedirettore, mentre alla direzione si susseguirono lo stesso Schivenoglia, il Bazzani e, dopo di lui Giuseppe Bottani. A lui si deve quella che è da considerare la prima vera “guida” di Mantova (1763), scritta con piacevole scioltezza e competenza diretta: essa ancor oggi offre un coinvolgente documento del passato e un prezioso aiuto agli studiosi (da osservare la modestia dell’autore: nessun accenno viene fatto alla propria attività).
Nell’ambito della pittura il Cadioli si distinse soprattutto nell’affresco e, come genere, nel paesaggio: ne sono esempio le decorazioni della villa di Bugno Martino, un tempo dimora estiva dell’abate di San Benedetto in Polirone. Sue tele a olio si trovano numerose sia nelle chiesa della nostra città che in quelle dei dintorni, a riprova di un’attività indefessa e assai richiesta. Morì prematuramente,a cinquantasette anni, il 7 settembre 1767 e fu sepolto nella chiesa di Sant’Egidio, di cui era probabilmente parrocchiano. Qui ancora si trova murata alla parete destra della piccola sagrestia nel 1938 dal parroco Casimiro Brunelli, la lapide dedicatagli dalla moglie, Maria Bonafini. Di essa trascriviamo l’iscrizione:
D.O.M.
IOANNI . CADIOLO
DOMO . MANTUA
(lettere scalpellate)
THEATRORUM . ARCHITECTO
PICTORUM . ACAD . INSTITUTORI
MARIA . BONAFINIA
CONIUGI . CARISSIMO
MOERENS . POS.
VIX . ANN .LVII . M . V .
RIP . IN . PACE . IV . EID . SEPT. 1767
Il Coddé, attraverso la sua trascrizione (1837), seguita dal d’Arco (1857) e dal Rosso (1852), ci ha permesso di conoscere le due parole mancanti: EQUITI AURATO. Sappiamo infatti dal Volta che il Cadioli, per l sue bnemerenze, fu insignito dell’Ordine dello Speron d’oro. Presso l’Accademia Nazionale Virgiliana si conserva tuttora il suo ritratto, dipinto dal mediocre pittore Leonardo Micheli, nel quale è ben visibile l’onorificenza.
Nel teso della dedica vi è inoltre un errore, o meglio, una curiosa ripetizione: RIP. IN PACE. «R.I.P.» nel linguaggio abbreviato delle epigrafi già significa «Requiescat In Pace», ma l’artigiano (o forse la stessa signora Maria), che non sapeva né di abbreviature né di latino, ha preferito servirsi, per maggior chiarezza, di un italianissimo «RIP[osi] IN PACE».
L’iscrizione si può a questo punto così tradurre: «A Dio Ottimo Massimo. Al coniuge carissimo Giovanni Cadioli, mantovano, Cavaliere [dello Speron] d’oro, architetto teatrale, fondatore dell’Accademia di Pittura, Maria Bonafini desolata pose. Visse 57 anni, 5 mesi. Riposi in pace. 10 settembre 1767».
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La «palla nuova», dipinta dal Cadioli per l’altare di San Guerrino, è tuttora presente in Sant’Egidio. Dopo alcuni spostamenti (dal primo altare a sinistra al terzo, di lato all’ingresso, quando, per necessità liturgiche, verso la metà dell’Ottocento il primo fu dedicato dal parroco, Martino Mosca, al culto della Beata Osanna Andreasi, come scrive il Rosso nel 1852; di qui, poiché il santo non godeva più della venerazione dei fedeli, tolta nel 1958 dal parroco, Sergio Iberi, e sostituita con quella raffigurante santa Lucia, proveniente dalla vicina chiesa delle Clarisse (come si sa dai documenti dell’archivio parrocchiale), si trova attualmente sulla parete destra della navata, tra il secondo e il terzo altare.
Assegnata al pittore per i caratteri stilistici fin dal 1969 da Chiara Tellini Perina, che però in mancanza di documenti non riuscì ad individuare con precisione il personaggio raffigurato, incerta tra san Tommaso da Villanova e san Giovanni d’Alessandria, essa rappresenta l’Elemosina di san Guerrino. Il santo, vissuto tra il secolo XI e il XII, fu abate cistercense e vescovo di Sion nel Vallese, e fu venerato come guaritore e come protettore del bestiame.
Il pittore lo rappresenta in età avanzata, in abito cardinalizio, mentre sui gradini antistanti un monumentale edificio distribuisce l’elemosina ad uno storpio e ad una giovane donna accompagnata dal figlioletto. Due chierici, accanto al santo, reggono l’uno il messale, l’altra la mitra. A mezz’aria volano tre cherubini. La composizione sembra risentire già di esperienze teatrali da parte del suo autore si nell’impaginazione (sfondo architettonico, gradinata di scorcio) che nella disposizione dei personaggi. Visti dal baso e impostati secondo uno schema piramidale con il vertice situato sulla destra, si dispiegano nello spazio in una soluzione dinamica che spesso viene seguita dal pittore e che risente probabilmente dell’influenza dello Schivenoglia, al quale richiama pure la tipologia dei volti dei chierici. Particolare risalto ha la figura del santo, dai tratti nobili e severi, colmi di umana pietà.
Il restauro recente (2000; condotto on la consueta perizia da Stefano e Rosa Sacchetti, altro tassello del metodico, graduale rinnovamento della chiesa e del suo patrimonio d’arte e di cultura che si è venuto attuando in questi ultimi anni) non solo ha permesso di evitare i danni di un pericoloso allentarsi della tela, consunta e lacerata nella parte superiore, ma ha portato alla chiara definizione dei personaggi e dello spazio in cui si trovano inseriti e ha messo in luce l’originaria gamma coloristica, prima offuscata da una densa patina nerastra, dovuta alla polvere e la fumo delle candele, che si era sovrapposta ad un corposo e ineguale strato di vernice, frutto di un intervento ottocentesco ingiallitosi nel tempo sfalsando la tonalità.
In alto, sullo sfondo, a sinistra del pronao a colonne scanalate (finalmente in evidenza) è riapparsa una fuga di edifici in prospettiva, quali merlati e quali sormontati da statue, tra medievalismo e neopalladianesimo. In basso, a sinistra, sui gradini, ai piedi della figura dello storpio, è ora ben leggibile l’immagine del secondo bambino, accanto a quello che sembrava intento a mangiare e invece ora mostra con aria felice una moneta a noi che lo guardiamo dall’esterno dello spazio scenico, facendoci partecipi dell’evento.
Già per la datazione, tra il 1736 e il 1742, la pala riveste una certa importanza: nella produzione del pittore si pone, accanto al Battesimo di Cristo della parrocchiale di Nuvolato (1738) e ai monocromi con le Storie di sant’Ippolito di quella di Gazoldo (1742; Tellini Perina, 1969; per questi ultimi, Bertelli, 2007), tra le sue prime opere datate. Egli era allora sulla trentina, e si apprestava, o si era appena apprestato, ad iniziare la sua attività didattica, ancora del tutto privata. Che avesse ormai acquistato una discreta fama lo dimostra proprio il fatto di essere uno dei «periti Penelli» scelti dal parroco Bellana per l’esecuzione delle pale della rinnovata Sant’Egidio (inventario 1730). E che, inoltre, avesse ormai maturato conoscenze aggiornate nell’ambito della scenografia si ricava indirettamente dalla stessa pala, soprattutto dopo il restauro, sia dalla scelta degli stili architettonici degli edifici posti a fondale del suo impianto compositivo, sia dalla trovata tipicamente teatrale di far agganciare l’attenzione del fruitore attraverso il gesto del bimbo seduto sul gradino, che si accompagna a quella di porre le due figure di questuanti di schiena in primo piano.
La propensione ad inserire particolari aneddotici da “pittura di genere”, nella scena sacra, mostra nel suo fare quella capacità di aderire al tema proposto che fu evidenziata dai versi berneschi che gli dedicò, nelle sue Rime piacevoli, l’amico Vittore Vettori (1788).
Attraverso la rimozione della tela all’intelaiatura si è appurato che la sua centinatura non è originaria, a testimonianza del trasferimento dal primo al terzo altare voluto dal parroco Martino Mosca, e al suo adattamento ad una nuova incorniciatura. E’ probabile anche che in quella circostanza sia stato eseguito il primo restauro con la conseguente verniciatura, ingiallitasi nel tempo.
E’ da ricordare che per Sant’Egidio il Cadioli aveva dipinto, oltre alla tela per l’altare di San Guerrino, anche quella per l’altare della Dottrina Cristiana, che era di fronte ad esso (dall’inventario del febbraio 1742: «Gesù che disputa co’ Dottori nel Tempio, opera è la palla del Sig.r Gioanni Gadioli [Cadioli], con cornice di legno indorata»). La pala, tolta dal già ricordato parroco Mosca e sostituita con quella raffigurante la Madonna con il Bambino venerata da sant’Egidio di Giuseppe Orioli, allora all’altare di mezzo (Rosso, 1852), fu ospitata in canonica e in seguito è andata perduta.
Maria Giustina Grassi
NB. L‘articolo riunisce le notizie pubblicate nel 1997 in «Diapason» e negli «Atti» dell’Accademia Nazionale Virgiliana e, sempre in «Diapason», nel 2000, dopo il restauro, aggiornate.
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