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don Renato... in bocca al lupo

don Renato Pavesi apre la sua memoria e il suo cuore alla sua ex comunità parrocchiale e a tutta la chiesa mantovana.
Dopo 24 anni in Ognissanti, una vita ... Parole semplici, profonde, vere... grazie!

http://www.ognissantisanbarnaba.it/2/index.php/unita-pastorale/news/190-arrivederci

 


Cari amici,

Augusta mi ha chiesto di scrivere qualcosa prima di lasciare Ognissanti-san Barnaba, ma lo faccio quasi di malavoglia ed all’ultimo momento, perché non mi viene in mente nulla da dire. Non che non ci sia niente da dire: ci sono 24 anni da raccontare! E che mi sembra inutile, ma ci provo.

C’era una volta, no, non va bene!Tanti, tanti anni fa, no nemmeno così.

A metà luglio, non cerco di ricordare il giorno, il vescovo mi dice di venire in Ognissanti e io, come adesso, gli dico di si. L’anno prima, dopo la morte di don Mario Chittolina mi ero reso disponibile a sostituirlo al Carcere; il vescovo mi disse che sì, ero adatto ma aveva scelto un altro. Pensai che era un pericolo scansato.

A Ognissanti conoscevo soprattutto qualche capo scout e poi monsignor Rosa che sapevo aveva cominciato a perdere la memoria. Vengo per parlarci, ma in corridoio, da basso, lo sento urlare con uno straniero che chiede soldi e decido di venire un’altra volta. Ci parlo, un’altra volta e mi pare contento, mi conosce da anni. Negli anni successivi, ogni tanto veniva a chiedermi perdono, ma io non sapevo per cosa e cercavo, ogni volta di rassicurarlo. Non credo lo facesse senza sapere cosa facesse, forse, ho pensato, gli dispiaceva non essere più lui il parroco e sentiva bisogno di scusarsi con me di questo pensiero. L’anno prima quando gli avevano chiesto le dimissioni per raggiunti limiti di età, era stato malissimo e poi aveva avuto un infarto.

Credo sia stato nella prima messa domenicale celebrata, che Isa, visto che erano mancate le ostie, aveva commentato:”Cambia il prete ma le cose restano sempre quelle”. Allora non sapevo come dovevo interpretare la frase, ma in seguito, capii che era quasi un apprezzamento.

A Ognissanti c’erano molte cose in disordine, impianti non a norma, finestre del corridoio che facevano acqua al primo acquazzone, le cantine piene di detriti e di cianfrusaglie, le porte del corridoio, il cancello su via Belfiore che restavano aperti di notte,  che ci dormivano e ci lasciavano, abbandonate, le bici, i motorini, magari rubati e Zeffirino brontolava perché non poteva mai pulire il pavimento, ma c’era la gente, la gente di monsignore, di don Claudio, di don Cesare, di don Walter. C’era il ricordo di Maurizio e il Claudio Bergamaschi che veniva a dir messa quando tornava dal Brasile e c’era Mario Lazarin, tutti giorni, puntuale alle 17, con la bicicletta che metteva nel sottoscala, la visita al Bar, la messa nella quale rispondeva sempre in fretta prima degli altri e poi le battute a volte feroci con Rita Frassoni, la vice parroco.

A complicare le cose arrivava Pier che guardava monsignore, a messa, e diceva: al pigosa! Questo è folklore, certo, ma faceva parte di Ognissanti.

Salto tante cose e vengo a dire che a Ognissanti spesso incontravi una certa spavalderia, un sentirsi superiori agli altri, derivante dall’avere una forte identità data dalla lunga e felice permanenza di monsignore, dalle esperienze avviate nel dopo Concilio, dalla convinzione diffusa di avere atteggiamenti comuni di apertura fisica e mentale, di attenzione al povero, di autonomia del laico, di accoglienza verso tutti, di sincerità, libertà di parola e di azione, anche di piantare un chiodo nell’affresco della cappella dei morti. Non è tutto oro quello che luccica.

Entrare in Ognissanti non era e non è così facile, occorre almeno e forse più di noviziato e di apprendistato, proprio perché entri a far parte di un mondo che ha le sue caratteristiche ben marcate alle quali è affezionato. Ma, venendo all’essenziale, Ognissanti anche se fatta di tanti intelligenti ha soprattutto un gran cuore e ti vuole bene; ti critica, ti prende in giro, ti mette a nudo, ma ti vuol bene, ti fa suo, ti adotta. Questo l’ho sperimentato, soprattutto negli anni della dialisi e poi del trapianto.

In quel periodo avevo pensato spesso di lasciare, mi spiaceva per don Giovanni che nel frattempo era venuto ad abitare ad Ognissanti. La malattia a lieto fine è stata per me una grazia: ho avuto bisogno di tanti e tanti mi hanno aiutato. Imparare che non hai solo il dovere di fare per gli altri, ma che è decisiva l’esperienza dell’aver bisogno, perché è esperienza della tua debolezza ed allora solo impari ad essere misericordioso, a comprendere cioè la debolezza altrui. Appena stai meglio peggiori, ma devi ricordarti di Paolo che dice: “Quando sono debole, è allora che sono forte”, ma è una strada lunga da fare e da imparare per arrivare a dire non sono migliore dei miei fratelli.

S. Barnaba mi scusa se le dedico meno righe. Mi sono trovato bene, perché c’era voglia di fare in diversi, voglia di dimenticare. Ognissanti pensava e pensa che vada tutto bene, s. Barnaba aveva più coscienza delle cose che non andavano. Anche a s. Barnaba c’è disponibilità a fare, certo il gruppo attivo è più piccolo, pochi si assumono tanti impegni e questo a volte mi è dispiaciuto, ma è una cosa bella vedere molta generosità.

Quest’estate durante la route di clan e il campo di riparto mi sono preparato a lasciare lo scoutismo dopo tanti anni. Ho pensato che si deve lasciare, sapere che c’è il momento di lasciare, con malinconia, certo, ma si deve fare. Penso di dovere molto allo scoutismo, ai tanti capi con i quali ho lavorato e che ho stimato e ammirato.

Che significato ha lasciare, perché lasciare quando ancora puoi fare e ti piace fare? Perché un prete lascia la sua gente? Forse perché non se ne approprii, perché sia chiaro che che noi siamo di Cristo e Cristo è di Dio? Il prete è servitore di una comunità e il distacco rimarca questa verità. Certo non può essere il trasferimento da un ufficio all’altro.Un altro può fare cose che io non ho saputo fare, chissà, anche questo ha un suo senso in Dio.