Lettere Missioni
Lettera di Natale 2007 - Gighessa
GIGHESSA CATHOLIC CHURCH - S. NATALE 2007
P. O Box 29 SHASHEMANE - ETHIOPIA
Tel. 00251 46 1190661
E-mail: gighessa@libero.it
Carissime/i,
è Natale e, secondo una piacevole consuetudine, vi inviamo questa lettera per ringraziarvi della vostra preghiera, amicizia e solidarietà e anche per condividere alcune riflessioni suscitate in noi dall’incontro con un mondo che è così diverso da quello occidentale, che a molti sembra assurdo che ci sia ancora e quindi cercano di vivere come se non ci fosse. Questo anno ne è uscita una lettera un po’ speciale, forse non facile da capire alla prima lettura. Abbiamo scritto in prima persona, dando voce uno dopo l’altro a oggetti e animali che ci aiutano a vedere le cose dal loro punto di vista; ne esce una storia diversa, con prospettive non scontate, che umiliano la nostra sapienza e sicurezza.
Per l’idea di scrivere in questo modo ringraziamo il Premio Nobel Orhan Pamuk, scrittore turco che tocca proprio i temi dell’incontro/scontro tra culture diverse. Sarà un caso? Mah! Adesso cominciamo:
IO SONO UNA SCARPA DI MONS. DI LEGRO
(DA ROMA A MANTOVA)
Come dite? Che mons. Di Legro (responsabile della Caritas della città di Roma) è morto ormai da parecchi anni e io dovrei essere già in discarica? Si vede che parlate poco con le scarpe e i vestiti usati… Quando una cosa secondo voi è finita, per noi inizia una seconda…e poi una terza vita addosso a qualcun altro. Ricordo che con Di Legro camminavamo con familiarità e tranquillità anche nel palazzo del Laterano, convocati da mons. Ruini perché qualche politico si era lamentato di una iniziativa o di un discorso troppo poco “diplomatici”. Con la stessa familiarità e tranquillità passavamo tra le baracche o tra i marciapiedi della stazione Termini…
Adesso ho sentito di quel che sta succedendo a Roma… Eh, se ci fosse ancora lui, ne avremmo del lavoro e di cose da dire, tra i marciapiedi come nei palazzi… Oggi so che ci sono tanti che continuano il lavoro di Mons. Di Legro tra gli emarginati, ma mi sembra che siano pochi quelli che hanno il coraggio di una parola profetica cristiana di giustizia. Quante ragazze rumene, russe, ungheresi, tailandesi e cubane sono ogni giorno violentate e picchiate da italiani? Non per questo si ruspano via tutti gli italiani. Perché? Perché qui sono a casa loro! Ah! E quando succede all’estero? Vuol dire che gli italiani non vengono cacciati tutti via solo perché hanno più soldi? Mah, non datemi retta, si sa che io ragiono con i piedi… prima quelli di Mons. Di Legro, adesso con i piedi non proprio profumati di ‘sto ragazzo, ammalato di TBC ma anche di molto altro, scaricato da un ospedale all’altro e adesso qui a Mantova, reparto infettivi.
Ha una brutta tosse, mi sa che presto cambio padrone di nuovo… e il terzo di solito non parla italiano.
IO SONO IL FONENDOSCOPIO DELLA DOTT.SA BARBARA
(DA MN A GIGHESSA)
“Respira profondo!” dice la dott.ssa Barbara. Eh, una parola, questo ragazzo che stiamo visitando ha un polmone che te lo raccomando… e io ne ho sentiti tanti! È arrivato qui al reparto infettivi di Mantova spedito da Roma, ma da come parla, chissà quanti posti ha passato, prima. Io ne ho visti, anzi sentiti tanti, e ne avrei di storie da raccontare, dopo anni in questo reparto di Malattie Infettive. Questo anno però c’è una novità: la dott.sa mi porta finalmente in vacanza. Io sono tutto eccitato: mi porta sempre con lei nella borsa per eventuali emergenze, ma in realtà so che sulle spiagge assolate anche d’inverno del Kenya il lavoro è pochissimo… che pacchia! E invece, anziché a Monbasa l’aereo si ferma ad Addis Abeba… mah, ci sarà la coincidenza, aspetta un po’. Mica tanto da aspettare: poche ore di macchina e subito al lavoro per 15 gg., e dalle 7 di mattina alle 9 di sera, senza neanche lo straordinario pagato! Dico così per farmi compatire, ma in realtà sono orgoglioso di essere anch’io parte di questa piccola opera di speranza. Pensate: grazie a me, le orecchie europee possono sentire battere il cuore etiope, capire quali problemi ci sono, pensare qualche soluzione. Io sono il segno visibile, al collo della dott.ssa, che lei vuole sentire il battito della vita, e lo vuole sentire bene. Se è quasi impercettibile, per lei è ancora più importante e devo farmi attentissimo a non perdere nulla di quello che può aiutarla a capire. A volte mi dico: di quanti come me ci sarebbe bisogno, nel mondo? Quante orecchie sono in attesa di qualcuno che faccia percepire il suono giusto, anche se debole, appena un sussurro? In questo momento la dott.ssa sta visitando una bambina di 7 anni, Duretti, portata qui dalla mamma mentre tornano dalla sorgente cariche di acqua, la mamma con una tanica gialla da 25 litri, la bambina quella verde da 15 litri. Vedo che mamma e figlia hanno posato le taniche nel cortile della clinica, insieme ai teli con cui se le legano sulle spalle. Ma devo pensare al mio lavoro, la bambina ha una brutta bronchite…
IO SONO LA TANICA DI DURETTI
(Gighessa: dalla sorgente alla clinica)
Uffa! Ma quanto ci mettono a visitare la bambina? A casa ci aspettano tutti, è quasi buio e tornando c’è ancora da raccogliere la legna per cuocere la cena. E’ vero che Duretti ha una brutta tosse, io la sento bene perché sono sempre appoggiata sulle sue spalle mentre saliamo dal fiume verso casa. Sono un po’ impaziente, anche perché devo confessarvi un piccolo segreto: sono incontinente… nel senso che ho una piccola crepa nella plastica, ricordo di quando mi hanno sbattuta giù dal camion, e se mi lasciano qui ancora un po’ finisce che a casa di acqua pulita ne arriva ben poca. E ce ne è così bisogno! Anche la mia sorella maggiore gialla, qui a fianco, non è messa meglio di me, a quanto vedo. Quanta fatica inutile ogni giorno, mamma e bambina, due ore a piedi per far arrivare a casa qualche litro di acqua potabile. Voi fate fatica a capirlo, certo, perché solo per togliere un po’ di fango da una scarpa lasciate scorrere litri e litri di acqua buona. Non è colpa vostra, lo so, ma di tutti quelli che dovrebbero fare, dire, intervenire, ecc
Sì, ma intanto Duretti è sempre qui con la sua tosse e deve portarmi ogni giorno, mattina e sera, sulle spalle fino al suo villaggio. Qualche volta non ce la fa proprio, e allora di nascosto dalla mamma anziché arrivare fino giù alla sorgente si ferma a riempirmi al fiume con le mucche, o in qualche grossa pozzanghera lungo la strada. Io la capisco, poverina, ma poi succedono sempre pasticci, i fratellini si ammalano, tutti in casa hanno la dissenteria, il papà si arrabbia e prende il bastone. Non è colpa vostra, lo so, ma di tutti quelli che dovrebbero fare, dire, intervenire, ecc
Adesso ho sentito la buona notizia: finalmente inizia a funzionare quella meraviglia che si chiama rubinetto, poco lontano da casa nostra, dove Duretti potrà attingere l’acqua senza scendere ogni volta fino al fiume. Un mese fa lo avevano rubato (il rubinetto, non il fiume), ma adesso dicono che finalmente hanno incaricato un bravo guardiano. Speriamo bene, è un anno che si perde tempo con questa storia dei furti e dei guardiani. Non è colpa vostra, lo so, ma di tutti quelli che dovrebbero fare, dire, intervenire, ecc
Se questa volta finalmente funziona, il problema sarà risolto per Duretti, ma non per le migliaia di Duretti che, a pochi km da qui, non hanno una sorgente raggiungibile e devono andare per forza al fiume del bestiame. Basterebbe qualche km di tubi, e anche loro potrebbero vivere meglio. Non è colpa vostra, lo so, ma di tutti quelli che dovrebbero fare, dire, intervenire, ecc
IO SONO L’ASINO DI JAMAL
(da Gighessa a Kuyera)
A che punto sono arrivati a riempire le taniche al rubinetto? Beh, io non ho fretta: intanto che Jamal, il mio padroncino di 13 anni, sta ben attento a non perdere il suo posto nella fila, io ne approfitto per farmi uno spuntino qui nel prato. Eh, la stagione secca è un bel problema anche per noi asini! Poca erba, e più lavoro per procurare l’acqua, perché tante sorgenti si seccano e tocca andare più lontano. Ma si sa, io ho un carattere paziente e prendo tutto con filosofia. Forse per questo i bambini etiopi mi vogliono così bene. A dire il vero, non lo manifestano molto, e di bastonate so che ne ricevo più del dovuto. Però mi sentono, come dire, vicino a loro; neanche i più piccoli hanno paura di me, e non solo perché non ho le corna: se volessi, potrei ribellarmi e fare del male, e invece, eccomi qui ad aiutare come posso l’economia della famiglia. Non dovreste stare qui ad ascoltare un asino, ma voglio raccontarvi una cosa. Ieri sera, mentre tornavamo a casa, Jamal si è fermato alla chiesetta del villaggio perché, meraviglia delle meraviglie, facevano vedere un film. Non ho resistito alla tentazione di sbirciare anch’io dalla porta aperta. Non capisco bene l’amarico, ma ho visto che era la storia della nascita di un bambino, dopo un viaggio che i genitori fanno, guarda caso, su un asino. Trovano posto solo in una stalla, perché tutto è occupato, e lì nasce il bambino. Jamal e i suoi amici guardavano curiosi, ma senza capire molto neanche loro, sembrava una storia troppo lontana. Quando però hanno visto che accanto al bambino nella mangiatoia sono comparse le inconfondibili orecchie di un mio fratello asino, sono scoppiati tutti a ridere e in un applauso. Era qualcosa di familiare, che ha fatto sentire loro la storia di quel bambino come una storia vicina a loro, che non spaventa, che dà gioia. E mi sono detto: se è vero come dicono che la storia di quel bambino può portare speranza e gioia a tutto il mondo, di quanti asini come me ci sarebbe bisogno, perché tutti sentano quella storia vicina alla storia della loro vita! Ma non dovreste stare qui ad ascoltare un asino…
Grazie.
A tutti voi auguriamo un Buon Natale. Come quello del fonendoscopio e dell’asino.
Abba Matteo, Abba Vito, Abba Gianfranco, Abba Eyhasu, Abba Joseph
Sr. Assunta, Sr. W.Gabriel, Sr. Abrehet.
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Lettera di Natale 2006 - Gighessa
GIGHESSA CATHOLIC CHURCH - S. NATALE 2006
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“Dopo questi fatti, Gesù designò altri 72 discepoli
e li inviò a due a due avanti a sè in ogni città
e luogo dove stava per recarsi” (Lc 10,1)
Nella Bibbia i numeri hanno un significato evocativo, che ricorda fatti e persone della storia lontana o recente. A noi, che cosa ricorda?
- 72, mamme comprese, sono all’incirca i bambini e ragazzi che nello scorso mese di ottobre sono stati operati alla clinica di Gighessa e che proprio in questi giorni, alla spicciolata, se ne tornano verso le loro terre, in ogni parte d’Etiopia. Per la maggior parte non sono cattolici, molti neanche cristiani, ma tutti sono riconoscenti e desiderosi di raccontare a casa la speranza che i “ferenji doctoroch” hanno riacceso nella loro vita. I più piccoletti certo non faranno grandi discorsi, ma è la loro stessa vita, il loro stesso corpo a testimoniare.
- 72, uno più uno meno, sono gli ospiti che dall’Italia ci hanno visitato quest’anno, mai così numerosi in passato. Anche questo avrà un significato, ne siamo certi. Persone molto diverse tra loro, dai dottori agli scouts ai seminaristi... tutti ci avete donato qualcosa della vostra vita, e tutti ve ne siete ora tornati verso la vostra terra, alla vita quotidiana. Uguali a prima? Siamo certi di no. Cosa è cambiato? Sicuramente c’è un modo diverso di valutare le cose di ogni giorno, una esperienza emotivamente molto forte... ma non solo. Tutti avete ricevuto da Gesù una nuova chiamata ad essere missionari, a precederlo.
In questo Natale, tutti siamo chiamati ad andare avanti, in posti dove Gesù sta per recarsi. Gesù per Natale vuole arrivare dappertutto, lo sappiamo. Anche se c’è già stato, vuole ritornare per fare qualcosa di nuovo.
- Vuol ritornare nella mia famiglia, e ha bisogno che io gli prepari un posto in casa, magari spostando un po’ la TV e eliminando una qualche cambiale, mutuo o rateizzazione che mi sta riempiendo la casa ma prosciugando il cuore, oltre che il conto in banca.
- Vuol ritornare nel mio ufficio, dove ogni giorno devo ossequiare il “capo” e dargli ragione, anche quando dentro di me mi ribello a scelte che calpestano le persone, e sempre le più deboli.
- Vuol ritornare nel mio ambulatorio, laboratorio, officina, campo, negozio o aula di scuola, dove si fa fatica a condividere qualcosa al di là dei rapporti professionali.
- Vuol ritornare nella mia sagrestia, dove mi preparo alla Messa col pensiero che già corre agli impegni che mi attendono al termine della celebrazione.
Gesù ci manda davanti a lui. Non solo gli Apostoli, ma tutti quanti.
La fede, se non è missionaria non è fede.
Allora:
- O sono missionario, o non sono un marito cristiano
- O sono missionaria, o non sono una madre cristiana
- O sono missionario, o non sono un lavoratore cristiano
- O sono missionario, o non sono un prete cristiano
Non tutti partiamo per chissà dove, come del resto i nostri ragazzi operati a Gighessa difficilmente si allontaneranno ancora dal loro villaggio. Tutti però siamo chiamati ad avere un cuore universale, davvero aperto e disponibile ad ogni chiamata, ad ogni possibilità. Essere missionario o missionaria significa fare un passo per andare incontro ad ogni uomo e ogni donna, di ogni razza e lingua, con la sua storia e cultura, anche se è lui/lei che ha già fatto la maggior parte del tragitto. Proviamo a spiegarci.
Tutti sappiamo che chi va in missione “oltremare” deve perdere tempo a studiare la lingua locale per essere più vicino alle persone, anche se loro capirebbero l’italiano o l’inglese. Allora chi di noi non può (per ora!) partire per la missione, perchè non impara qualche parola di arabo, albanese, russo o swahili per essere missionario rimanendo in Italia? Servirebbe a poter perdere un po’ di tempo incontrando le persone, andando incontro a loro e ascoltando dal vivo le loro storie. Anche tanti conflitti culturali ne sarebbero attenuati: è difficile considerare nemico uno che parla la tua lingua nativa.
Questo è il passo più importante; poi prendere l’aereo e lasciare l’Italia diventa facile.
Qui come altrove, la vera sfida è mostrare con la mia vita l’amore di Gesù Cristo. Prima che di una organizzazione benefica o educativa, prima che di una chiesa, c’è bisogno di una testimonianza di vita credibile.
- La gente intorno a me pensa che nella vita non ci sia un senso, una speranza. La mia missionarietà è mostrare con la mia vita che nell’amore di Gesù si può trovare una vita buona e bella allo stesso tempo.
- La gente intorno a me pensa che la religione cattolica dica solo dei NO alle poche gioie della vita. La mia missionarietà è preparare la strada, con la mia vita, a Gesù Cristo che libera, dà gioia, dà il coraggio di rinunciare a qualcosa dell’oggi per pensare a chi ci sarà domani dopo di me. Sono figli di tutti noi, e non vorremmo passare alla storia come la generazione più egoista.
In questi giorni abbiamo sentito alcune testimonianze in una Missione del Kenya.
- Una famiglia con 10 figli era andata in Missione a chiedere di poter adottare un bambino. In quei giorni era stato trovato un bambino cerebroleso. Il missionario chiese loro se, oltre al bambino che volevano adottare, potevano tenere questo bambino ammalato per alcuni giorni, in attesa di trovare una ‘sistemazione presso un orfanatrofio’. “Non per alcuni giorni - fu la risposta -, ma lo terremo con noi per sempre”. Dopo un anno la famiglia ritornò. “Forse si saranno stancati”, pensò il missionario. “Padre - dissero - siamo qui per ringraziarla del grande dono che ci ha fatto; questo bambino ha cambiato la nostra vita. Ora siamo diventati tutti, noi genitori ed i nostri figli, più generosi ed attenti agli altri”.
- Una ragazza disabile di 17 anni era stata trovata chiusa in casa sua. In quegli anni non era mai uscita di casa, era stata picchiata, abusata, aveva partorito un bambino ed ora il suo carattere era molto scontroso. Non volendo abbandonarla, la missione cominciò a cercare una famiglia del vicinato che potesse adottarla. Era il Giovedi Santo. Trovata una famiglia, dopo aver spiegato la situazione della ragazza, la risposta fu sorprendente. Il padre di famiglia disse: “Non abbiamo problemi ad adottarla: abbiamo cibo, sapone e molte figlie che potranno seguirla. Se a voi va bene, lei può entrare subito nella nostra famiglia”. La madre aggiunse: “Questa ragazza è la benvenuta. Siamo vicini a Pasqua e noi crediamo che lei è il Signore Risorto che è venuto a visitarci”.
Da queste persone del ‘terzo mondo’ ma dalla fede semplice e profonda possiamo imparare cosa significa essere cristiani, aperti a tutti e missionari.
Così davvero può essere Natale. Così Gesù può nascere e arrivare in posti nuovi dove non è mai stato davvero.
C’è un ultimo numero da ricordare: 1172.
È il numero di copie di questa lettera che abbiamo spedito dall’Etiopia. Una è quella che hai tra le mani. Fai in modo che non rimanga inutile: oggi stesso inizia la tua missione.
Grazie.
A tutti voi auguriamo un Buon Natale. Anzi, un Natale Missionario.
Abba Matteo, Abba Vito, Abba Gianfranco, Abba Eyhasu, Diacono Joseph
Sr. Assunta, Sr. W.Gabriel, Sr. Abrehet.
Sr. Abbebech, Sr. Marta, Sr. Almaz, Sr. Birke, Sr. Meseret.
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