La discesa dello Spirito Santo
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LA DISCESA DELLO SPIRITO SANTO
Quando, nel lontano 1575 il visitatore apostolico Angelo Peruzzi, durante la sua ricognizione nelle chiese mantovane in ossequio ai decreti del Concilio di Trento, giunse alla parrocchiale di Sant’Egidio, rilevò con rammarico che non si vedesse in alcun luogo l’immagine del santo al quale essa era dedicata: ordinò pertanto che venisse dipinta e posta ben visibile in alto nella tribuna. Le relazioni delle successive visite pastorali nulla ci dicono in proposito. Solo nell’inventario steso nel 1648 dal rettore (parroco) Peregrino Boni risultano sistemate a parete dietro l’altar maggiore, oltre alla grande ancona dell’Annunciazione di Maria, titolare dell’altare stesso, le immagini di Sant’Egidio e di Sant’Anselmo.
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Nel 1721 (la prima pietra venne posta da Ludovico Antonio Montanari, canonico della Cattedrale) il rettore Giovanni Bellana (1718-1742) diede inizio alla ristrutturazione dell’antico edificio (inventario 1730) che, a quanto si ricava da un elenco contemporaneo di mano del rettore della parrocchiale di San Martino Gusnago, dovrebbe essere stata affidata al capomastro ticinese Giovanni Maria Borsotto (Suitner, 1990), assai attivo allora sia in città che nel contado. I lavori si protrassero a lungo, tanto che il coro ebbe la sua definitiva sistemazione solo nel 1787, col rettore Girolamo Fontana (Rosso, 1852). Quelli interessanti la navata, però, dovevano essere a buon punto fin dal 1723: lo testimonia lo stesso Bellana nell’inventario del 1730. Negli anni intermedi egli aveva intanto cominciato a provvedere ad una dignitosa sistemazione degli altari e a commissionare alcune ancone in sostituzione di quelle vecchie e ormai fatiscenti. Le nuove non dovevano, secondo i suoi propositi, “esser fate se non per mano di perito Penello”: all’altare dello Spirito Santo, il primo a destra entrando, già aveva potuto sistemare ”il Quadro novo fatto dal Sig.r Giuseppe Orioli Pittor accreditato, à spese della Compagnia del SS. Sacramento, sopra il quale v’è dipinta la venuta dello Spirito Santo sopra gli Apostoli”, con la sua “vaga e bella cornice tutta indorata assieme con la cimasa”.
Alla morte del Bellana, nel 1742, il rettore di Sant’Apollonia, Celestino Badalotti, incaricato di compilare l’inventario in attesa del sostituto, oltre alle nuove ancone dell’altare di San Guerrino e dell’altare della Dottrina Cristiana, di Giovanni Cadioli, e di quello della Natività di Maria Vergine, di Pietro Fabbri (la prima tutt’oggi presente sulla parete destra della navata, le altre andate perdute), poté elencare anche la seconda pala dipinta da Giuseppe Orioli per la chiesa, rappresentante Sant’Egidio in venerazione della Madonna. L’altare, il secondo a destra, “ha la palla nuova opera del Sig.r Giuseppe Orioli con cornice indorata”, egli scrive, e aggiunge: “il fondo di detto altre è tutto à stucchi fatto di nuovo”così come la cappella dell’altare dello Spirito Santo “è contornata di stucchi”. Attualmente noi vediamo la chiesa nella sua veste ottocentesca, spoglia e lineare, ma ben più ricca si presentava alla metà del Settecento.
Già il Bellana, parlando nel ’30 dell’altare di Sant’Egidio, allora ancora privo dell’ancona, aveva sottolineato che “al mantenimento, reparazione e provedimento” dell’altare stesso, poiché dedicato al Santo titolare della chiesa, era “tenuto il Rettore pro tempore, non avendo fondo alcuno ò dote destinata à tale effetto”. È facile dunque che egli stesso avesse sostenuto la spesa dell’ancona, mentre a quella dell’altare dello Spirito Santo, come si è visto, aveva provveduto la Compagnia del Santissimo Sacramento. Peccato che negli inventari non sia specificato il costo delle due tele.
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È probabile che sulla fama dell’Orioli, come su quella di Pietro Fabbri, abbia influito a lungo il giudizio negativo a suo tempo espresso da Carlo D’Arco (1857). Le fonti lo dicono mantovano, ma non ne danno l’atto di nascita. Il Cadioli scrive che egli morì nel 1750 (1763; nostre ricerche in Archivi Comunale non hanno dato però alcun risultato). Il Coddé, che fu allievo” della primitiva Accademia (1837), alludendo a quel corso di pittura e scultura a carattere privato che il Cadioli aveva organizzato nella propria casa, insieme allo Schivenoglia, durante la stagione invernale almeno a partire dalla fine degli anni ’30 (che i due chiamavano, con una certa enfasi, “Accademia del nudo”, cfr. Grassi, 1974), destinato a dar luogo, nel 1752, all’Accademia di Belle Arti, patrocinata dall’imperatrice Maria Teresa e accolta in alcuni ambienti del Palazzo Ducale. E allo Schivenoglia come maestro dell’Orioli fa riferimento anche il D’Arco. Chiara Tellini Perina, dopo aver accettato in un primo tempo questa tesi (1965), successivamente l’abbandona in favore del Canti (1984), forse per una maggiore consonanza di stile.
L’indicazione del Coddé va senz’altro scartata: come si è visto l’Orioli già prima del ’30 aveva dipinto la Discesa dello Spirito Santo e certo non aveva più bisogno di lezioni di pittura. Anche l’idea dello Schivenoglia come suo maestro va presa con le debite riserve. Troppo diverso il suo stile da quello del bizzarro e anticlassico, se pur originalissimo artista. Resterebbe il Canti, pittore parmense giunto a Mantova sul finire del ‘600, scomparso nel 1716, celebre per i suoi “paesaggi” e le sue “battaglie”, eseguiti con estrema rapidità e scioltezza, ma piuttosto modesto nei dipinti di soggetto sacro. Non sembra però, confrontando le due tele dell’Orioli presenti in Sant’Egidio con quella, eseguita dal Canti per la vicina S. Maria della Carità e raffigurante i Santi Cosma e Damiano dinanzi alla Vergine e al Bambino, che l’Orioli, al di là del comune rifiuto delle tendenze anticlassiche, potesse gran che trar vantaggio dal suo insegnamento.
Nella Discesa dello Spirito Santo, che per ora può essere considerata la prima opera databile del pittore (l’inventario è del 1° giugno 1730), egli dimostra di avere ormai una solida preparazione, ancorata alla tradizione cinquecentesca e rivolta sia agli esempi giulieschi che a quelli della pittura veneta. La gentil, elegante figura della Vergine in preghiera al centro, sovrastata dalla colomba e rialzata su alcuni gradini, si inquadra tra quelle di Pietro e di Giovanni, che giganteggiano imponenti inginocchiate ai lati in primo piano. Originale la disposizione degli altri Apostoli nel retro, a gruppi di tre per tre più uno, contro l’articolata parete di fondo. I loro volti nobili e severi presuppongono a monte un’accurata educazione impostata sugli esempi classici. Ben dosato il colore (come appare ancor più ora,dopo l’accurato restauro di Stefano e Rosa Sacchetti), più contrastato nei toni nelle zone di contorno, più morbido nell’immagine della Vergine.
Altrettanto organica e armoniosa nell’impianto la seconda tela, la cui datazione va posta tra il 1° giugno 1730 e il febbraio 1742, quando fu steso l’inventario del rettore Badalotti, e che oggi, per uno spostamento avvenuto nella prima metà dell’Ottocento vediamo, sempre a destra, ma al primo altare. Non più raccolte intorno ad un perno centrale, le figure sono disposte su piani diversi, secondo diagonali spezzate. Il santo è a sinistra, inginocchiato sulla nuda terra in preghiera, gli occhi alzati verso la Vergine che, reggendo in braccio il Bambino, gli appare a destra tra le nuvole, secondo un modello assai diffuso specie a partire dal 1600. Controbilanciano le loro immagini sulla sinistra in alto tre testine di cherubini, in basso due putti alati impegnati nella cura l’uno della mitra, del messale e della cerva, l’altro del pastorale, attributi del santo. La leggenda, una delle tante su di lui che si perdono in un medioevo fantastico, narra che Egidio, giunto da Atene in pellegrinaggio a Roma e di qui emigrato in Provenza, attirato dalla fama di san Cesario, si ritirò in eremitaggio in una foresta nei pressi di Nimes. Qui viveva, nutrendosi del latte di una cerva addomesticata. Il re visigoto Wamba, durante una caccia, inseguì la cerva e per errore ferì il santo, presso il quale l’animale si era rifugiato. Pentitosi, fece costruire alle foci del Rodano un monastero di cui Egidio divenne l’abate (il famoso complesso di Saint Gilles, sulla strada che porta a San Giacomo di Compostella). Così si spiegherebbero la presenza dell’animale e l’abito del santo, che è venerato come protettore degli infermi, degli storpi e degli epilettici, invocato dalle madri che allattano e contro le paure notturne dei bambini.
Nella tela il pittore, superati gli schemi cinquecenteschi, appare più vicino alla ricerca contemporanea, sia di ambito veronese che emiliano. L’iconografia della Vergine, specie l’acconciatura, si avvicina a quella della tela dipinta da Girolamo Donnini, emiliano appunto, probabilmente per la chiesa dei Santi Filippo e Giacomo (che sorgeva un tempo davanti al teatro Sociale), ora conservata nella pinacoteca del palazzo Ducale e non a caso dall’Ozzola attribuita all’Orioli (1949). Quella del Bambino ricorda quella che si vede nella tela raffigurante l’Estasi di San Filippo Benizzi, eseguita dall’Orioli stesso per San Barnaba insieme agli ovali con i sette santi fondatori dell’ordine dei Serviti (1730, 1732; quattro di essi, rubati in anni recenti, sono stati sostituiti da copie della pittrice Anna Moccia Palvarini).
Maria Giustina Grassi
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