La Beata Osanna e San Domenico
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LA MADONNA CON IL BAMBINO, SAN DOMENICO E LA BEATA OSANNA ANDREASI
È il più antico tra i dipinti eseguiti per la chiesa di Sant’Egidio a noi rimasti.
Oggi si ammira al terzo altare a sinistra, il più vicino al presbiterio, ma non è questa la sua prima collocazione. Torniamo indietro nel tempo a quella che doveva essere la struttura cinquecentesca dell’edificio rinnovata, come si è detto in altra sede, dal Rettore (Parroco) don Bartolomeo Cavazzi (1553).
Essa presentava cinque altari, tutti dedicati alla Vergine, il cui culto era preminente tra Quattro e Cinquecento (Brunelli, 1986). A sinistra dell’ingresso era quello della Natività, a destra quello della Purificazione, secondo due atti notarili che nel 1584 ne assegnano le cappellanie (Archivio di Stato, Mantova; Rubini, com. orale). Tra questi e l’ingresso stesso, nel lasso di tempo che va tra questa data e il 1593, anno in cui la chiesa riceve la prima visita del Vescovo, frate Francesco Gonzaga, vengono inseriti a sinistra l’altare “Sanctorum Dominici et Osannae” e a destra quello della Confraternita del Santissimo Sacramento. Nella relazione della visita (Archivio Diocesano, Mantova)si dice che però ambedue sono ancora privi di dotazione e che rimarranno interdetti al culto fino a che non verranno forniti di altare portatile (pietra sacra), della forma e misura stabilita, e di tutto il necessario, secondo le indicazioni del Visitatore Apostolico, certamente quell’Angelo Peruzzi, Vescovo suffraganeo di Bologna, che nel 1575 si era premurato di verificare che nelle chiese della diocesi venissero ottemperati i decreti tridentini. Riguardo all’altare del Santissimo Sacramento si specifica che cosa si intenda per “necessario”: lo sgabello, i candelieri, e l’“Icona”, cioè la pala dell’altare. Dunque i due altari ne erano ancora privi. Per noi questa notizia è utile per la datazione della nostra pala che, in base al titolo dell’altare, raffigura in primo piano proprio San Domenico e la beata Osanna e che non può essere stata eseguita prima della visita del Gonzaga, quindi del 1593, anno che segna anche l’inizio del suo episcopato (1593-1620). La fondazione dell’altare, da parte di un devoto parrocchiano, Luigi Rogna, segretario ducale (Pecorari, com. oral); il padre di Luigi, Cesare, morto nel 1574, era sepolto in Sant’Egidio, v. mss. D’Arco), cade invece durante l’episcopato di Alessandro Andreasi (1583-1593), della stessa nobile famiglia di Osanna, che certo non fu estraneo ad essa. E pure deve essere ad essa collegato il fatto che la dimora degli Andreasi, in cui Osanna visse, è situata proprio di fronte a Sant’Egidio. La stanza della Beata era divenuta, fin dalla sua beatificazione (1515, chiesta espressamente da Isabella d’Este al Papa, Leone X Medici), luogo di culto: nel 1595, durante un’altra visita alla chiesa, il Venerabile Francesco vi si recò e diede disposizioni per le messe, che avrebbero dovuto in futuro essere celebrate solo con il suo permesso.
In Sant’Egidio la collocazione dell’altare della beata Osanna (così venne poi sempre chiamato) non variò neppure con la riedificazione dell’edificio, promossa dal Rettore Giovnni Bellana nel 1721: dall’inventario del 1730 si sa che il quadro era “vechio e in parte rotto, e per la sua grandezza sproporzionato alla cappella”, e in seguito deve essere stato restaurato e incorniciato, dato che in quello del 1742 si legge che “la palla” era “antica … ma buona, con cornice parte a pitura color giallo, parte a vernice d’Oro” (Archivio Diocesano, Mantova).
Lo spostamento al primo posto accanto al presbiterio si ebbe, a quanto afferma il Rosso nei suoi Cenni (1852), con il Parroco Martino Mosca (1845-1855), che nel 1848, in previsione della settimanale processione del Corpus Domini in Sant’Egidio (che non poté essere effettuata essendo la città in stato d’assedio), fece ristrutturare l’interno dell’edificio: la posizione era più comoda per la celebrazione della “Messa semplice corale”, che si teneva ogni anno il 18 giugno, ricorrenza della morte della Beata (1505).
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L’ultimo decennio del 1500 vede una vera fioritura di dipinti in cui viene raffigurata Osanna: oltre alla pala di Sant’Egidio, le due delle parrocchiali di Carbonara Po (1599) e di Scorzarolo, assegnate dal Berzaghi (1989) ad Ippolito Andreasi, detto l’Andreasino (1548-1608), e quella dell’altare del Rosario (1599), situato nel transetto sinistro della nostra Cattedrale (sotto la cui mensa nel 1813 trovò finalmente riposo la salma della Beata, trasferita per le soppressioni napoleoniche nel 1798 da San Domenico a San Vincenzo, e da qui al Duomo, appunto in quella data).
Quest’ultima merita qualche nota in più. Il Susani (1818) affermava di aver letto sulla tela la firma dell’autore, che interpretava come “Serafino” Malpizzi, nome che però già il D’Arco (1857) rettificava come “Bernardino”. È l’unica opera documentata di quest’artista, di cui si sa ben poco, nato nel 1553 e scomparso nel 1623, ricordato nei suoi versi dal Gigli (1615) tra i pittori mantovani più famosi. Il D’Arco lo dice dedito più alle incisioni che alla pittura, e attualmente sappiamo che eseguì, tra gli altri, anche i disegni dei Trionfi di Cesare del Mantegna per l’incisore Andrea Andreani (Martindale, 1979). Per analogie con la pala del Duomo sono state a lui attribuite la tela con san Filippo Benizzi, della chiesa di san Barnaba e, appunto, quella con san Domenico e la beata Osanna in Sant’Egidio (Berzaghi, 1989), che per tradizione era ritenuta “dei fratelli Costa” e che anche studi abbastanza recenti consideravano “tarda opera di collaborazione” tra Lorenzo il Giovane e Luigi Costa, o i loro discepoli (Gozzi, 1976).
In essa la composizione è svolta su due zone, di cui la più bassa sembra inserirsi a forza nella superiore. In alto, in uno scenario di nuvole compatte, tra le quali si affacciano teste di cherubini, appare la Madonna, che tiene sulle ginocchia il bambino. Questi alza gli occhi ridenti alla Madre, che a sua volta guarda in basso a san Domenico. Nella zona inferiore grandeggiano in primo piano le figure del santo e di Osanna, ambedue nell’abito domenicano, nitide sagome scure contro lo sfondo chiaro di una veduta di rovine in prospettiva. Domenico, a sinistra, è posto di profilo e sembra muovere un passo verso la Vergine. Regge con la destra il giglio e con la sinistra accenna ad Osanna. Intorno al capo ha l’aureola, di cui viceversa la beata è priva.
La figura di lei sembra isolarsi, monumentale, sull’altro lato del dipinto. Con il piede sinistro calpesta un demonio dall’aspetto di satiro, dal qual, volgendo appena il volto, sembra voler distogliere, con espressione decisa e severa, lo sguardo.
Il recente, improrogabile e lodevole restauro (Sacchetti – Brunelli, 1992), ha riportato in gran parte il dipinto – provato dalle ingiurie del tempo e degli uomini (ricordiamo le parole dell’inventario settecentesco), ma soprattutto da un’improvvida, drastica pulitura che si presume avvenuta nell’Ottocento, forse legata al passaggio d’altare del 1848 – nelle sue primitive condizioni e ne ha permesso la completa leggibilità, oltre a darci indicazioni precise sulla sua committenza, sulla sua esecuzione e sulle sue vicende. In basso, accanto a san Domenico, è apparso un piccolo stemma gentilizio, ben chiaro se pur privo dell’incorniciatura: è quello della famiglia Rogna (D’Arco, mss.), certo di Luigi, che fondò l’altare.
Sono riemersi pure alcuni “pentimenti”, accaduti durante l’esecuzione: riguardano il mento e il collo di Domenico e il capo di Osanna nella parte dietro, ma soprattutto la mano destra del santo, di cui è stata completamente variata la posizione.
La pala era stata rintelata in anni molto lontani - con il Rettore Bellana nel 1700? – certo per suturare i vistosi strappi e le lacune presenti soprattutto nella parte bassa. Poi subì, sempre in anni lontani ma più vicini a noi, la drastica pulitura di cui si è detto, che spazzò via ogni velatura, specie gli azzurri del cielo, e delle nubi e, in parte, delle vesti della Madonna, nonché la raggiera che doveva esistere intorno al capo di Osanna – al suo posto è una monotona stesura grigia – l’incorniciatura dello stemma e le minute foglie dei cespugli di lato alla beata. Nella stessa occasione si intervenne in più punti con maldestre ridipinture – fortunatamente non sui volti – e si coprì tutta la superficie con una vernice che in seguito venne sempre più ingiallendo e mutando la tonalità dei colori.
Il presente restauro, rimossa la vernice e la sporcizia accumulati nel tempo, e reintegrate pazientemente le zone mal ricomposte, permette di godere una quantità di particolari prima di difficile lettura.
Nell’indistinta luminosità del cielo sopra il gruppo Madonna – Bambino sono affiorate varie piccole teste di cherubino, e altre sono rinate nelle zone in ombra delle nubi. Le immagini dei personaggi hanno ripreso espressione e volume. Nello sfondo si sono evidenziate due tematiche diverse; dietro a Domenico le rovine di un antico edificio (le arcate di un deambulatorio?), dietro alla beata l’immagine lontana di una città apparentemente circondata dall’acqua (Mantova?, ma i tetti degli edifici sono molto spioventi), separate tra loro da una colonna isolata. Certo offriranno spunti nuovi alla critica.
Gli steli dei gigli e le erbe del prato in primo piano ora risaltano nei loro particolari, così come l’immagine del demonio, in cui le sembianze umane trapassano in quelle del capro, del pipistrello e dell’uccello rapace.
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La data di fondazione dell’altare, tra il 1584 e il 1593, e quella di esecuzione del dipinto, dopo il 1593 (si osservi tra l’altro che la figura di Osanna che calpesta il demonio ricorda, in versione femminile, quella di Ferrante I Gonzaga del monumento eretto nel 1594 sulla piazza maggiore di Guastalla, capolavoro di Leone Leoni celebrato ai suoi tempi), eliminano tra i probabili esecutori Lorenzo Costa il Giovane, morto nel 1583, e forse anche Luigi, che le fonti dicono zio dello stesso Lorenzo, della cui vita però nulla sappiamo. A Luigi sempre le fonti assegnano la Tradizione delle chiavi di Santa Barbara (1572): il confronto con quest’opera, ispirata all’omonimo arazzo raffaellesco, ora in Palazzo Ducale, potrebbe interessare solo per la parte alta della pala di Sant’Egidio, improntata ad un classismo di matrice romana, e per l’inserimento della prospettiva.
Quanto a Bernarino Malpizzi, che abbiamo visto essere soprattutto incisore ed aver tratto disegni da opere del Mantegna, potrebbero portare lui, nella zona inferiore, la nettezza del disegno, il senso del volume, la staticità e la monumentalità della figura di Osanna, il rigore ritrattistica del volto di lei. Dati tutti però che, pur presenti nella tela del Duomo, sono in essa diversamente interpretati e potrebbero semplicemente risalire ad una stessa fonte.
D’altronde lo stesso Berzaghi ha ultimamente accantonato l’attribuzione al Malpizzi per suggerire il nome di Teodoro Ghisi, riferendosi sia ai dati di stile sia al particolare delle rovine, che potrebbe derivare da una serie di incisioni del fiammingo Gerolamo Cock, che il pittore avrebbe potuto conoscere tramite il fratello Giorgio il quale era stato alla sua bottega.
Ripensando alla datazione dell’altare, sullo scorcio del secolo, resasi ancor più evanescente la possibilità di un coinvolgimento di Luigi Costa, di cui nulla si sa dopo il 1572, scartata l’ipotesi di un lavoro a più mani uscito dalla bottega costesca, ormai sicuramente esauritasi, sempre tenendo conto che il “magnifico” Luigi Rogna certamente aveva commissionato l’opera ad artisti collegati alla corte gonzaghesca, si può rivolgere l’attenzione non solo a Teodoro Ghisi (1536 – 1601), come indicato dal Berzaghi, ma anche ad Ippolito Andreasi ((1548 – 1608) e a Francesco Borgani (1557 – 1624), autori tutti attivi anche per committenti privati impegnati nella dotazione di cappelle e altari della propria famiglia, nell’ambito del rinnovamento o della costruzione ex novo di edifici religiosi nel clima ispirato alle volontà del vescovo fra Francesco Gonzaga.
Tutti annoverano nella loro produzione pale di ugual soggetto, la Madonna con il Bambino venerata da santi, in composizioni strutturate sullo stesso schema dei due registri sovrapposti, collegati tra loro e insieme divisi da uno sfondo paesistico a orizzonte più o meno ribassato, con vedute e rovine di antichi edifici. Tra le tante, quelle maggiormente affini alla pala di Sant’Egidio sono la Madonna del Rosario con i Santi Sebastiano e Domenico della parrocchiale di Suzzara (post 1577?), attribuita dal Berzaghi a Teodoro Ghisi; la Madonna con il Bambino e le sante Caterina e Lucia, in Sant’Eufemia a Verona, assegnata ad Ippolito Andreasi da Sergio Marinelli; la Madonna del Rosario con San Giovannino e San Domenico della parrocchiale di Borgoforte (1594 ca.), data a Francesco Borgani ancora dal Berzaghi, come la “copia” tardiva di Santa Maria in Castello a Viadana.
In tutte si hanno palesi relazioni iconografiche: il San Domenico di Suzzara, seppure inginocchiato, anticipa nel movimento verso l’alto, nei tratti del volto, nella posizione della mano sinistra quello di Sant’Egidio; la Madonna della pala veronese nelle sembianze del volto e nell’eleganza delle movenze ricorda da vicino, se pure in controparte, la Madonna della pala Rogna, così come la corona di pesanti nuvole appena bordate di luce; sia i tratti della Vergine che quelli dei cherubini, e l’acconciatura di lei nella tela di Borgoforte riflettono quanto si vede in quella mantovana, per non dire del san Domenico che, più legnoso nella struttura e impacciato negli atti, è ispirato sicuramente ad essa: e qui dovremmo essere intorno al 1594, e quindi già si potrebbe parlare di derivazione, e di una diffusione del modello iconografico del santo.
Consonanze si hanno poi dal punto di vista formale con l’Incoronazione della Vergine della parrocchiale di Campitello, assegnata all’Andreasino dal Marinelli sulla scorta di un disegno del Louvre, e con diversi dipinti di Teodoro Ghisi, dall’Incoronazione della Vergine con quattro santi dell’oratorio del Nome di Dio a Pesaro al Sinite parvulos della chiesa abbaziale di Seckau e a quello dell’Alte Galerie di Graz; non è da scordare inoltre il San Filippo Benizzi di San Barnaba, anche se riferito ultimamente al Malpizzi.
Tutti sembrano rispondere ad una stessa linea di tendenza, che si riflette dall’uno all’altro, coinvolgendo pure l’interpretazione degli influssi che provengono dalle aree esterne, in particolare da quella emiliana.
A questo punto sembra superfluo, dati i richiami e le consonanze incrociate, tentare di dare al dipinto una precisa paternità: nato nel comune clima della pittura di corte, tra Andreasi e Ghisi, già utilizzato dal Borgani per il “modello” del San Domenico appena dopo la sua esecuzione, resta, pur adespoto, tra i più significativi esempi della pittura tardocinquecentesca mantovana.
Maria Giustina Grassi
NB. L’articolo riunisce insieme le notizie pubblicate in «Diapason» nel 1992, in «Atti e Memorie dell’Accademia Virgiliana» nel 1994, e nella scheda del catalogo della mostra Osanna Andreasi da Mantova nel 2005.
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