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Il Salvatore benedicente

Il Salvatore benedicente

LA BEATA VERGINE E IL REDENTORE BENEDICENTE

Fanno parte dell’arredo della chiesa parrocchiale di Sant’Egidio due grandi ovali del 1700 racchiusi in identiche cornici d’epoca a fondo marmorizzato, sul quale si avviluppano eleganti e mosse foglie d’acanto intagliate e dorate, ricadenti in alto a formare cimasa.
Raffigurano l’uno la Beata Vergine in atto di dedizione e di preghiera, l’altro il Redentore benedicente che con il braccio sinistro regge il globo, nella tipica iconografia, di derivazione bizantina, dell’“Imperator Mundi”.
Di essi non si trova notizia negli inventari settecenteschi né in quelli ottocenteschi, a meno che in questi ultimi (1887; 1894), assai sintetici, non siano da individuare tra una serie di “quadri mezzani”, che comprende anche degli “ovali”.
Sono elencati invece nell’inventario del 1939 (steso da don Casimiro Brunelli), come esistenti in chiesa nella stessa posizione in cui oggi si trovano, correttamente datati al secolo XVIII e attribuiti il Redentore a Felice Campi, la Vergine ad un ignoto autore: probabilmente vi giunsero come dono di una famiglia abbiente della parrocchia.
Nel 1969 Chiara Perina, riconosciuta in ambedue la stessa mano, li assegnò al settecentesco Pietro Fabbri in un primo abbozzo del catalogo delle opere del pittore. La stessa ha in seguito pubblicato la fotografia dell’ovale raffigurante la Vergine (1984). I dati stilistici, specie per quanto riguarda questa tela, convalidano l’attribuzione.
L’impianto del capo e del busto della Vergine, la disposizione del drappo che le copre i capelli, le fattezza del volto (il naso regolare ma un poco lunghetto, la bocca ben disegnata, il piccolo mento sfuggente) nonostante la diversa espressione, si ritrovano nell’ovale rappresentante l’Addolorata conservato nella chiesa della Santissima Trinità a Bozzolo, pure attribuito al Fabbri (Bazzotti, 1987).
Gli stessi lineamenti e l’atteggiamento, mite e compunto, si scorgono nella Madonna che porge lo scapolare a san Simone Stock, raffigurata nella grande tela della chiesa di San Benedetto Abate a Gonzaga, assegnata recentemente al pittore (Berzaghi, 1990); mentre il volto del Redentore, riprende, di fronte, quello visto di tre quarti dello stesso san Simone. Accomuna poi le figure la tipica conformazione delle mani, dalle dita lievemente arcuate all’indietro, dato “morelliano” che si può riscontrare nelle opere dell’artista fin dalla Madonna del Capitolo della Cattedrale, ora al Museo diocesano, la prima documentata (1716; Martelli, 1986).
La recente pulitura (eseguita dai restauratori Stefano e Rosa Sacchetti) ha messo in evidenza sia la qualità del colore, armonizzato su tonalità chiare e brillanti, ormai barocchette, vicine a quelle del veronese Balestra, sia la pennellata disinvolta ma nello steso tempo tesa a modellare morbidamente le superfici, senza disfare la materia come suggeriva la contemporanea ricerca del Bazzani. Per la datazione, si dovrebbe essere intorno o poco dopo il 1740.
È da ricorare che per S. Egidio, su commissione del parroco Giovanni Bellana ( (1718-1742), che aveva voluto la ristrutturazione della chiesa, il pittore eseguì tra il 1730 e il 1742 (v. inventari) l’ancona per l’altare della Natività di Maria Vergine, il secondo a sinistra entrando. La tela, rimossa intorno alla metà del 1800 (Rosso, 1852), e posta in canonica, è andata perduta.
Figura interessante quella del Fabbri “detto dell’Aboè per esser eccelente sonatore di tale strumento” (come recita una cronaca contemporanea), e per troppi anni ingiustamente trascurata. Mi parlò per la prima volta di lui monsignor Luigi Bosio: amante della musica, delicato scultore e appassionato conoscitore d’arte; credo che lo incuriosisse proprio il fatto che il Fabbri fosse musicista oltre che pittore, e che ciò glielo facesse sentire, per una tal quale affinità elettiva, umanamente più vicino.
Pittore “figurista”, a quanto sembra dedicatosi totalmente a soggetti religiosi, giunse a Mantova sul finire del secolo XVII da Vicenza: questo spiegherebbe la diffusa aura veneta che traspare dalle sue tele. Abitò con i suoi dapprima in via Bella Lanza, in San Giacomo; poi, sposatosi con una giovane del contado, in San Leonardo, in una viuzza oggi non più esistente, dal nome curioso “via del carro di legna sotto il volto”, situata tra via Trento e vicolo Voltino.
Con il suo lavoro di pittore, apprezzato sia in città che nei paesi vicini, e come suonatore di oboe, dapprima nelle chiesa cittadine e poi, stabilmente, presso la cappella arciducale di Santa Barbara, mantenne una famiglia piuttosto numerosa: undici figli, i più morti appena nati o piccini, uno di poco più di vent’anni durante la guerra di successione polacca; dei tre che gli sopravvissero, la maggiore si fece suora, presso le Servite, il minore divenne canonico della Cattedrale, il mezzano, Giuseppe, fu come lui pittore e suonatore, ma di organo. Una vita difficile la sua, in una Mantova che via via vide il crollo di una dinastia tra le più prestigiose d’Europa, un susseguirsi di guerre, l’andirivieni di soldataglie d’ogni bandiera per le sue contrade. E su tutte le sue e altrui vicissitudini, il sorriso dolce-amaro delle sue Madonne (Grassi, , Acc.Naz.Virg., 1966; 1998).

Maria Giustina Grassi